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The Departed

Martin Scorsese, 2006, Usa

imagesTrama: Jack Nicholson è il boss mafioso di Boston. Matt Damon il suo infiltrato nella polizia. Di Caprio l’infiltrato della polizia nella sua banda. “C’è puzza di talpa”.

Il Film: finalmente Martin Scorsese raggiunge l’oscar per la miglior regia, con un film un po’ tamarro, molto americano, sicuramente inferiore a diversi suoi film, ma non per questo meno bello e gradevole. La sua solita bomba su italiani vs irlandesi vs americani. Sempre il numero 1 in questo.
Amare Scorsese è obbligatorio, è un comandamento, un uomo a cui voglio bene, perché mi fa sempre divertire, mi fa sempre emozionare, e mi sorprende sempre.
Le sparatorie in sequenza negli ultimi 20minuti di questo film ne sono un esempio. Senza tregua, una dopo l’altra, tutti contro tutti. Uno spettacolo di montaggio e regia. Uno spettacolo di regista.

Capitolo Leonardo Di Caprio, ormai pupillo di Scorsese, che prova a farmelo piacere in ogni suo ultimo film, senza quasi mai riuscirci. Qui è fastidioso come sempre, esagerato, sopra le righe, ma funziona grazie al dualismo con Matt Damon, i due fanno un po’ a gara di recitazione senza che nessuno vinca. Vincono i personaggi, funzionano insieme e basta. Direi Leo meglio del noioso The Aviator, e anche del suo fastidioso personaggio in Gangs of NY. Riuscirai mai a starmi simpatico? Non penso, accontentati di Shutter Island, e anche di questo dai.

Nota di merito per un grandissimo cast di supporto, al di là del terzo incomodo nella coppia Leo-Damon, Mark Wahlberg. Si distinguono Martin Sheen, ed un immenso Alec Baldwin che mi fa sempre ridere, Vera Farmiga brava e bella, e c’è spazio anche per David O’Hara che tutti ricorderete in BraveHeart per “è la mia isola!” Irlandese fondamentale anche qui.
(Devo commentare la prestazione di Jack Nicholson? È necessario?)

In conclusione, miglior film, miglior regia, miglior montaggio, e miglior sceneggiatura non originale. Sosteniamo sempre che gli oscar non valgano molto, ma ogni tanto ammettiamo che sono davvero meritati.
Onora il padre, la madre, e Scorsese. Non necessariamente in questo ordine.

Voto: 7.5 Jack dopo che Leo gli fa notare che è abbastanza ricco e vecchio da poter smettere:
I soldi non mi sono più serviti da quando ho rubato ad Archie i soldi della merenda in terza elementare. A dire la verità nemmeno la fica mi serve più. Però mi piace.”

Capitano Quint


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London Boulevard

William Monahan, 2010, UK/USA

urlTrama: Colin Farrell, uscito di prigione, vorrebbe restare lontano dai suoi vecchi amici, e dalla malavita inglese, nella quale è comunque noto e rispettato. Trova lavoro come guardia del corpo della top model Keira Knightley, e i due ovviamente si innamorano. Ma il passato ritorna prepotente.

Film: Girato bene, le strade sudice di Londra sono sempre un piacere per il cinema, la storia regge alla grande, e finalmente ritrovo un Colin Farrell in forma. L’ho sempre ritenuto un attore migliore di parecchi suoi film soprattutto recenti, ma è proprio in questo tipo di film che tira fuori il meglio di sé, quando fa l’assassino/criminale/disperato pieno di angoscia come in Sogni e Delitti di W.Allen, e In Bruges che è anche molto meglio di questo film.
Qui in più c’è Keira, sempre più secca, ma anche brava a essere complice di una bella storia d’amore, senza tante smancerie, molto essenziale.

La storia ricorda tanto Carlito’s Way, questo criminale che vuole solo un po’ di pace e tranquillità ma che non riesce a chiudere i conti con il proprio passato. Gli sono tutti amici solo per interessi, tutti pronti ad averlo al loro fianco ed allo stesso tempo a voltargli le spalle. La soluzione è la fuga d’amore?
Love story, sparatorie finali, strade piene di merda, tutto fatto bene, dai titoli di testa, alla colonna sonora, un bel film, senza pretese, ce ne fossero di polizieschi/noir così.
E alla fine, come in Carlito’s Way, è un ragazzino come Benny Blanco a rovinare tutto. Anzi a rendere il tutto molto bello, un finale come piace a noi, sofferto e vero.

Voto 7: Dai Colin, torna tra noi

Capitano Quint


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Margin Call

J.C Chandor, Usa, 2011, 109 min.

Trama: Una delle più grandi banche di investimento americane sta ridimensionando il personale. Tra i licenziati c’è Erik Dale, che prima di abbandonare il suo ufficio con la classica scatola degli effetti personali, consegna ad un giovane analista finanziario – Zachary Quinto, il Sylar di Heroes – una pennetta con dei file che cambieranno il corso degli eventi. Da vero stakanovista, l’analista Peter Sullivan, completando il lavoro portato avanti da Dale, scopre infatti che la banca è sull’orlo del baratro, e tiene nel suo portafoglio milioni di azioni che non valgono nulla, un esposizione finanziaria enorme con conseguenze inimmaginabili per tutto il mondo finanziario. Da una telefonata nella notte, restano solo 24 ore per salvare la società dal fallimento.

Il Film: molto attuale, con i tempi che corrono, anche a casa nostra (MPS insegna). Gli americani avranno tanti difetti eh, però per il cinema di denuncia sono sempre un passo avanti a tutti. L’aveva già fatto Oliver Stone con Wall Street – che resta comunque là in cima, come migliore fotografia del mondo superinflazionato dell’alta finanza – ci ripropone oggi lo stesso tema Chandor, ovviamente in chiave più moderna e al passo coi tempi. La cosa che salta subito agli occhi è il cast: stellare. Kevin Spacey – che non delude mai, anche nei film di seconda fila cui ha partecipato – Jeremy Irons, nei panni (sporchi) del supermegadirettorefigldiputt pronto a rovinare tutti gli altri pur di salvarsi dal baratro, Paul Bettany – un intermediario ormai disilluso che assiste con passiva rassegnazione allo sfilacciarsi della società che lui stesso ha contribuito a costruire – e, infine Demy More, che sarà l’unica a pagare per l’errore commesso da altri. Sì, ci sarebbero anche Penn Badgley, Zachary Quinto e poi quello che faceva The Mentalist, non pervenuto. Comunque potevo fermarmi ai primi due, che sono più di una garanzia e sono anche i protagonisti delle due scene migliori – almeno secondo me – del film. La prima vede Kevin Spacey, pezzo grosso della società costretto a licenziare decine di dipendenti seduta stante, che piange nel suo ufficio: per il fido cane ormai malato che deve  essere soppresso. La gente se ne va con la sua scatolina di cartone e lui piange per il cane, immagine immensa e carica di significato di un mondo ormai allo sfascio. L’altra è la scena clou, quando cioè il timido analista che ha scoperto la falla deve spiegare che cosa stia succedendo al capoccia, uno spietato Jeremy Irons, velenoso e trasudante bile nell’immagine perfetta del cagnaccio arraffatore, accolito del Dio denaro che vuole pararsi il culo, restando bello sdraiato sui suoi soldi. L’unica pecca è il registro, a volte veramente troppo tecnico, però oh, si parla di finanza, è normale che vengano fuori derivati, leverage e cazzi vari.

Non è un film veloce, anzi, l’arco delle 24 ore è ampiamente dilatato lasciando molto spazio al parlato; questo può non piacere, ma dato che non potevano metterci Bruce Willis nei panni di un analista che fa fuori tutti per dare più carne al film, accontentiamoci, visto che comunque il risultato è ottimo anche così.

Voto:  7-. Il voto è di parte. I film sulla finanza cogli omini in doppio petto l’ho sempre visti tutti, e con piacere . Non è da vedere con la propria ragazza sperando che a fine serata ve la dia, ne da vedere con gli amici per farsi due risate, perché non ce ne sono. Però oh, ci son Kevin Spacey e Jeremy, mi basta anche così.

Vitellozzo.

 

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L’Innocenza del Diavolo

Joseph Ruben, Usa, 1993, 87 min.

Trama: Mark (Elijah Wood) ha appena perso la madre. Dato che il babbo deve fare un viaggio di lavoro, manda il bambino dagli zii per qualche settimana, sperando così di fargli dimenticare per qualche giorno almeno la perdita subita. Non l’avesse mai fatto: il figlio maggiore di sua zia SusanHenry (Macaulay Culkin) – è pazzo. Ma pazzo davvero.

Il Film: Fa sempre piacere rivedere questi film, non tanto per la bellezza della pellicola, o per la trama o per altro, ma solo per renderti conto che ormai Elijah Wood e Macaulay Culkin c’hanno 30 anni, che non sono più bambini come potevi essere te quando li guardavi, che forse c’hanno famiglia, e che quei tempi lì son lontani, che è finita un’epoca. Più che altro ti rendi anche conto che è finito qualcos’altro: il cinema per bambini. Ora, in realtà questo può non essere l’esempio migliore di film di genere vista la trama, però se si pensa che con i Mamma ho perso l’aereo ci siamo cresciuti tutti, e che Wood prima di fossilizzarsi per sempre nella mente collettiva come Frodo Baggins ha fatto una decina di film sullo stesso piano (il Natale perderebbe qualcosa se anche quest’anno non ritrasmettessero l’indimenticato North su qualche rete), non posso non chiedermi come mai ora si facciano solo film d’animazione, che secondo me son peggio cento volte di questi. Comunque, il film. Rispetto alle commedie sopracitate siamo chiaramente su un altro registro – non ci sono scene divertenti, non c’è John Candy, insomma non è una commedia – e anche su un altro livello – il film è troppo scarso rispetto agli Home Alone. Nonostante tutto, è comunque godibile. Mark è l’unico che si accorge della malvagità di suo cugino, l’unico che tenta in ogni modo di evitare che questi faccia più danni della grandine (a volte ce la fa, altre volte no). Lo scontro tra i due è talmente serio, che sembra quasi una lotta tra adulti. Sembrano adulti anche loro, forse troppo, per come parlano, per come si muovono, per come pensano. Un bambino come Henry non esiste, sarebbe proprio figlio di Satana. Io alla sua età giocavo con le micro-machines, questo invece si diverte a buttare un manichino giù da un cavalcavia causando un mega incidente..è chiaro che appare tutto un po’ esagerato. All’esagerazione dei bambini si contrappone l’esagerazione  della figura degli zii, e della mamma di Henry in particolare, troppo irreali anche loro: non sanno cosa faccia il loro figliolo, non sanno dove vada durante la giornata, lo lasciano pattinare da solo con sua sorella su un lago ghiacciato d’inverno, gli costruiscono una casa sull’albero a un altezza di io dico vetri metri dal suolo e si aspettano che non succeda nulla. Chiamate SOS Tata perché questi due hanno perso il controllo. La perla poi arriva alla fine. Si scopre che Henry ha ucciso suo fratello minore di pochi mesi annegandolo nella vasca da bagno, della cui perdita la madre ne soffre ancora molto. Scena topica: zia Susan a precipizio su una scogliera che tiene per un braccio Mark e per l’altro Henry, entrambi i bambini a strapiombo sul mare – frasi di rito “non mi lasciare!” “sto scivolando!” “aiutami mamma!” – e chiaramente lei ne può salvare solo uno. Vincerà l’amore materno per il figlio deviato ma comunque figlio tuo oppure per il nipote lì da due settimane?

Voto: 6.5. Inflazionato, ma io i film che mi hanno cresciuto li proteggo sempre e comunque.

Vitellozzo.

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The Wicker Man

Robin Hardy, 1973, UK, 88min

wicker+manTrama: un ispettore di polizia viene incaricato di indagare sulla scomparsa di una ragazzina in un piccolo villaggio su un isola, dove scoprirà che gli abitanti sono ancora legati a riti pagani.

Il Film: state alla larga dal remake del 2006 con Nicholas Cage. In generale da un film con Nicholas Cage, ma soprattutto dal remake di questo capolavoro, perché non è possibile replicare questa storia, anche se evidentemente è possibile farlo male. Anni ’70, un’isola sperduta in Scozia, solo nebbia e mistero, una comunità molto chiusa, in cui uno straniero che viene a fare domande non è gradito, a maggior ragione se è un poliziotto, che indaga su una ragazza, e soprattutto che è un convinto cristiano, intento a rimanere vergine fino alle nozze.

Per più di metà film il clima è teso, di sottofondo strane canzoni corali sui raccolti agricoli e sulla natura, gli abitanti sono falsamente gentili e molto riservati, nessuno sa nulla, nessuno conosce la ragazza, neppure la madre. La prima cosa stupenda che è si nota in questo film è l’inquietante attenzione ai particolari: in pasticceria i dolci sono a forma di animali, a forma di teste di montoni, o a forma piccoli uomini; alle pareti della locanda foto annuali di grandi raccolti e con al centro una ragazza. A questo ambiente solo all’apparenza tranquillo, inizia a sommarsi anche l’aspetto del tormento erotico, rappresentato dal contrasto tra il casto e puro protagonista, e la bionda e provocante figlia del locandiera che toglie il sonno al povero ispettore. Strane canzoni, ragazze nude che ballano, l’assenza di chiese, e il grande Cristhopher Lee che interpreta il capo della comunità, non riescono a far impazzire, che va avanti nelle sue indagini, troppo avanti, fino a rimanere coinvolto in qualcosa più grande di lui, un rito pagano fatto di sacrifici animali e umani. Quello che non si aspetta è che la creatura vergine da sacrificare non è la ragazza.

Tutta la festa del rito è bellissima e surreale, i costumi, le maschere, il paesaggio, tutto contribuisce a creare un’atmosfera mistica e spaventosa, fino all’apice di tutto, il grande falò dell’uomo di vimini, the WickerMan. E’ qui che c’è la vera svolta del film, non solo l’ispettore è condannato a bruciare vivo per omaggiare gli dei pagani e favorire il raccolto, ma è proprio quando ormai che le fiamme sono vicine che si mostra tanto stupido, e mentalmente chiuso dalla religione, quanto gli abitanti dell’isola: mentre loro intonano i loro canti, lui invoca la salvezza del suo Dio, convinto che cantare una preghiera possa salvarlo. Non c’è differenza tra le due parti opposte, tutti ugualmente oppressi e accecati dal rispettivo credo. Grandissimo film.

Voto 7/8: dopo la visione è necessario l’ascolto di The Wicker Man degli Iron Maiden. Anche prima della visione, anche sempre, l’importante è vedere il film e ascoltare gli Iron.

Capitano Quint

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Il Caso Thomas Crawford

Gregory Hoblit, Usa, 2007, 113 min.

Trama: Il giovane procuratore rampante Willy Beachum – 97% di cause vinte – si trova a dover accusare di omicidio un famoso ingegnere aerospaziale, Thomas Crawford, reo di aver ucciso la moglie. Sembra tutto facile, l’accusato di autoaccusa e collabora con le autorità, solo che non si trova l’arma del delitto, la pistola rinvenuta accanto al cadavere della donna non corrisponde. Inoltre, durante il processo verranno alla luce verità nascoste che metteranno in seria difficoltà l’avvocato dell’accusa, un ottimo Ryan Gosling.

Il Film: se Thomas Crawford nella vita normale non si chiamasse Anthony Hopkins, Gosling vincerebbe la causa a mani basse e il film sarebbe già finito, però oh, poerino, gli è toccato lui come omicida da accusare e sicchè ciccia. Il film non è altro che lo scontro tra Gosling e Hopkins, tra lo sbarbatello arrogante e l’uomo di cultura, che con sguardo serafico osserva il suo accusatore crollare sempre più sotto i colpi della propria astuzia. E’ chiaro da subito che il processo sarà più difficile del previsto, che dietro l’omicidio della moglie di lui si nasconde una verità più profonda, come è palese che sarà un impresa titanica tirarlo nel culo a Anthony che fa i’pazzo, sullo stile di  Hannibal Lecter,  con quegli occhietti satanici e i dentini affilati. Alla fine la trama, lo svolgersi della storia – con colpi di scena bilanciati e distribuiti benissimo durante tutto il film – contano il giusto, fanno solo da contorno alla prova di forza dei due, a uno scontro di nervi piacevole da vedere e facile da seguire (la sceneggiatura secondo me è ottima). La tensione cresce così come il legame che lega i due “nemici”; Thomas Crawford distrugge lentamente la credibilità e l’infallibilità di Beachum – oltre che la di lui vita privata, Rosamunde Pike gli da un “due” grosso così – facendogli perdere la chance di essere assunto in un grosso studio legale, ma quando questo ha la possibilità di “mollare” la pratica a qualcun altro, rifiuta, per orgoglio. Il Caso Thomas Crawford diventa una questione privata. Alla fine vince il bene, inutile nasconderlo, ma l’impressione (almeno per me) è che l’avvocatino abbia fatto da sparring-partner per cento minuti buoni di film per poi, nel finale, stremato dalla fatica, ricevere da qualche santo in paradiso l’illuminazione per risolvere il caso (forse un pò troppo semplicistico), della serie “vai bellino vai, tu n’hai prese talmente tante dal Sir che quasi mi fai pena, tieni, piglia e porta a casa”.

Voto: 7.5. Un buono e onesto legal-drama, genere che in America ha sempre spopolato, e non a torto. N’ho visti tanti di film sui processi, tribunale, giuria, prove, controprove, e non sono mai rimasto deluso, mai. Tantomeno in questo caso. Qui poi abbiamo Gosling, che ancora una volta da prova di essere un attore vero, e Hopkins, per il quale ormai ogni complimento mi sembra ridicolo e superfluo. E’ Hopkins, basta.

Vitellozzo.

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Lo Squartatore Di New York

Lucio Fulci, 1981, Ita

Trama: Un ispettore di polizia riceve una telefonata dopo ogni omicidio di una ragazza. A parlargli è una voce, quella di Paperino. Insieme ad uno psicologo e ad una giovane sopravvissuta, l’ispettore cercherà di trovare e fermare il killer.

Il Film: C’è una formula per un buon film horror primi anni 80? Se sì, Fulci l’ha trovata: sangue + tette + no al lieto fine. Nel 1981 il regista aveva già una quarantina di film alle spalle, ma solo da quattro o cinque anni si era dedicato esclusivamente all’horror. Già nel suo primo film di genere, Zombi 2 (rigorosamente con la “i” finale) sono ampiamente espliciti gli elementi di questa formula. Qualche bella ragazza, i seni tipicamente anni 70, tanto tanto sangue fatto bene (solo lui poteva girare lo scontro tra uno zombie e uno squalo) e un finale tutt altro che lieto e risolutivo. Se nell’ultima scena di quel film gli zombie si avviavano in massa sul ponte di New York verso la conquista della città, qui la grande mela vive un altro dramma, stavolta senza morti viventi, ma con un assassino che senza apparenti moventi o strategie sventra giovani e bellissime donne. Ora Fulci però deve fare i conti non con il pubblico (il film è andato bene anche all’estero), non con la critica (che per abitudine lo distrugge), ma bensì con la censura, che sembra abbia largamente contenuto le smanie del regista. Nella versione uncut sono presenti diverse scene di nudo integrale, di autoerotismo, e di sesso, ma sarebbe veramente superficiale etichettarlo per questo come b-movie, perché qui Fulci decide di concentrarsi maggiormente sulla trama, sul thriller, sulle indagini della polizia, sul giallo dell’identità dell’assassino, e anche sul suo dramma personale. La figlia malata di quest’ultimo che telefona in lacrime al padre dal letto dell’ospedale senza ricevere risposta è uno dei finali più tristi immaginabili, perché dopo aver fatto vedere l’assassino come un mostro, lo rigetta in una dimensione umana e dolorosamente privata che ti spiazza. E allora magari ti accorgi che proprio un pazzo maniaco incapace questo regista non è, che forse oltre a zombie decomposti e fiumi di sangue, ha una capacità di raccontare la disperazione, il pessimismo, e il terrore come pochi nella storia del cinema (basti pensare al finale di E Tu Vivrai Nel Terrore!L’Aldilà). Effetti visivi degli squartamenti fin troppo reali, attrici che si prestano a tutto, attori su cui possiamo sorvolare riguardo alla recitazione, e una sceneggiatura che sta in piedi dall’inizio alla fine. E proprio quando stavo notando come ancora non ci fosse stata una scena in cui Fulci si concentra, come fa sempre, sugli occhi, ecco che la lametta del rasoio scorre sul corpo della ragazza, sul suo capezzolo, sulla sua fronte… e le squarcia a metà l’occhio.

Voto 7.5: di splatter trash ne avrà anche fatti tanti, soprattutto nei suoi ultimi anni di carriera, ma rileggendo la numerosissima filmografia spiccano 4 o 5 titoli di livello superiore, e questo ne fa sicuramente parte.

Capitano Quint

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La Promessa dell’Assassino

David Cronenberg, Usa/UK/Can, 2007, 100 min.

Trama: Londra. Naomi Watts  è Anna, un ostetrica di origine russa che un giorno si ritrova a far partorire una ragazzina di quattordici anni, russa anche lei, la quale, dopo aver dato alla luce una bambina, muore per  le emorragie sopravvenute durante il parto. Tra gli effetti personali della ragazza, la donna trova anche un diario, scritto dall’adolescente, e un biglietto di un ristorante chiamato Trans-Siberian, nel quale spera di poter trovare informazioni su un eventuale parente per il neonato, ormai senza più una madre. Anna si reca così al suddetto ristorante, dove conosce Seymon, il proprietario, che subito si offre di aiutarla nella traduzione del diario e nella ricerca di eventuali parenti della ragazza. Ma le apparenze ingannano. Dietro la cordiale ospitalità dell’uomo si nasconde il capo di una delle fratellanze criminali più grandi di Londra, padre di un figlio, Kirill (uno stranamente buono Vincent Cassel), completamente sottomesso alla figura paterna. Quest’ultimo ha un rapporto ambiguo con la sua guardia del corpo/autista/assassino Nikolai (Viggo Mortensen).

Ben presto si scoprirà dalle pagine del diario che la ragazza era stata portata dalla Russia a Londra con l’inganno di un futuro migliore ad opera dello stesso Seymon e in seguito costretta a prostituirsi. Seymon, per mostrare al figlio omosessuale come si sottomette una donna, ha violentato la ragazza reiterate volte, mettendola incinta (è lui, dunque, il padre del neonato). In tutto questo, Viggo Mortensen, autista silenzioso e assassino spietato, si troverà da un lato a doversi occupare degli “affari” di famiglia, mirando a raggiungere un grado di importanza sempre maggiore (ambisce al controllo dell’organizzazione), dall’altro prenderà a cuore la vicenda di Anna e cercherà di aiutarla. L’identità di Nikolai si scopre solo nel finale: in realtà è  un agente dell’FSB infiltrato (si spiegano così molte azioni “buone” da lui fatte), ma la sua figura resta avvolta da un alone di ambiguità e mistero. Infatti, se da un lato la sua identità è svelata, facendoci pensare che Nikolai sia un “buono” e che alcune azioni da lui commesse siano state dettate dalla necessità del caso, dall’altro vediamo un uomo che, assieme a Kirill, prende il posto di Seymon alla guida dell’organizzazione criminale, entrando a far parte della famiglia in modo definitivo, facendosi tatuare le stelle sul petto e sulle ginocchia (come da tradizione).

 Il Film: Basterebbe leggere il nome del regista per avere la garanzia di trovarci di fronte a un ottimo film, quel David Croneneberg autore di roba come La Mosca, Videodrome o, per dirne uno più recente, A History of Violence (meglio glissare su A Dangerous Method). Qui non si scherza eh. Ammettendo però, che non abbiate visto nessuno di questi tre sopracitati, una garanzia lo sono anche gli attori principali, Naomi Watts (sempre brava) e il buon Viggo, che anche quando sta zitto o dice due battute due in tutto i’film, fa sempre la sua figura, come in questo caso. Basta poco per renderci conto che siamo di fronte a un attore che interpreta un personaggio che per la sua fisicità (Nikolai è pieno di tatuaggi, nel mondo della criminalità russa sono fondamentali)  resta nella memoria.  Ma Cronenberg non si ferma solo all’estetica, sennò farebbe come fanno la maggior parte dei registi che vogliono girare la solita storia sui personaggi tosti, ma senza spessore. Ci regala un uomo profondamente segnato dalle esperienze, nato buono (agente) e corroso dalla malavita non solo sulla pelle (e i tatuaggi lo testimoniano), ma anche nell’animo, al punto tale che i ruoli si capovolgono; alla fine non si capisce più se Nikolai sia buono o cattivo, se la sua sia ancora una copertura, o una nuova vita. Se poi uno ci aggiunge anche una scena – quella della sauna – come se ne son viste poche negli ultimi anni, viene fuori pefforza un ottimo lavoro. Cronenberg è riuscito anche nell’impresa (che io ritenevo impossibile) di non farmi dispiacere Cassel, che di solito fa ridere la merda.

L’unico aspetto che poteva essere migliorato per rendere questo buon film veramente ottimo, era il ritmo della storia: in alcuni punti è troppo troppo lento, ci voleva un po’ più di tensione narrativa. Ci son dei punti morti, a cui però posso anche passare sopra considerando il colpo di scena sull’identità di Nikolai e il finale che resta avvolto nel mistero.

 Voto: 7+. Vi faccio una promessa: La Promessa Dell’Assassino non deluderà le vostre aspettative. Per chi ama le scene di violenza un po’ macabre tantomeno. Da vedere.

Vitellozzo.

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A History of Violence

David Cronenberg, Usa/Ger, 2005, 96 min.

Trama: Viggo Mortensen è Tom Stall, proprietario di una tavola calda nella tranquilla cittadina di Millbrook. Marito affettuoso e padre esemplare, vede la sua vita travolta la sera in cui, dopo aver sventato una rapina – uccidendo i due malviventi – diventa famoso, e finisce sulla Tv nazionale. Grazie alla immediata notorietà, i clienti aumentano e tutto sembra tornare lentamente alla normalità, fino a quando una mattina non si presenta un uomo, che dice di conoscere Joey, quel Joey Cusack che ora si fa chiamare Tom Stall, quel Joy Cusack di Philadelphia che gli ha quasi staccato un occhio con il filo spinato. Tom dice di chiamarsi “Tom” e non “Joey”, dice di non aver mai visto questo tizio, non lo conosce. L’uomo è Carl Fogarty (Ed Harris, bravo come sempre), spietato boss di Philadelphia, e sembra molto convinto delle sue idee. Chi ha ragione? Perché quest’uomo perseguita Tom? Chi dei due mente?

Il Film: Ormai si sa. Cronenberg è una garanzia. Difficilmente fa dei film di basso profilo, e, se questo può non essere il suo miglior lavoro, A History of Violence è comunque tanta roba. Fidatevi. Cronenberg non si limita solo a “girare” i film, è uno che cerca sempre di spingersi oltre, nella psicologia dei suoi personaggi, con l’elemento del “doppio” come filo conduttore non solo della pellicola, ma un po’ in tutta la filmografia del nostro amico David. Sembra di vedere un film di Tarantino, ma senza le cose che non mi piacciono di lui, tipo il regista/attore che fa un cameo e scene senza senso basta che ci sia sangue e musichine sega per fare i’ganzi. Qui è tutto a posto, c’è tanta violenza, tanto sangue, ma le scene e la storia seguono un filo logico inevitabile (e inesorabile), che porteranno il protagonista e la sua famiglia alla frantumazione più completa. Niente scene nonc’hocapitouncazzomacomesifa che odio fino alla morte. La musica poi, che non è mai invasiva, lascia spazio a lunghi silenzi, che toccano più di qualsiasi rumore. Mortensen secondo me ha una presenza scenica particolare, lo senti subito quando lo vedi, c’è, di sicuro farà o dirà qualcosa di fondamentale. Che non è un semplice barista penso si sia capito tutti, sennò la storia finirebbe li. Che Ed Harris quando gli metti gli occhiali scuri e un completo nero ci sta come i’tonno coi fagioli è palese. La parte del cattivo spietato è sua, da sempre.

Voto: 7.5. Delle volte m’è toccato vedere dei film dello stesso genere lunghi il doppio e merdosi dieci volte tanto. Qui, invece, in novantasei minuti novantasei non si perde tempo, niente scene morte, niente sbuffi, niente maialachepalle, solo un sano thriller sanguigno, con una bella storia e dei bravi attori. Ultimamente se ne sente la mancanza.

Vitellozzo.

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Colpo d’Occhio

Sergio Rubini, Ita, 2008, 110 min.

Trama: Scamarcio è Adrian, un giovane scultore dal grande talento, che conosce Gloria,  una Vittoria Puccini amante di un potentissimo critico d’arte, Sergio Rubini, che ha il potere di lanciare artisti sconosciuti (come di distruggerli). I due si conoscono, si innamorano, Gloria lascia Lulli (così si chiama Rubini, bah) e vanno a vivere insieme; il tutto avviene sotto il benestare di Rubini, il quale, prende più che bene la cosa e oltre a interessarsi piacevolmente della vita della coppia, inserisce nel mondo dell’arte che conta il giovane e inesperto Adrian, arrivando ad allestire una mostra tutta per lui. Tutto sembra andare per il verso giusto, dal punto di vista lavorativo (Adrian sta per essere lanciato) e sentimentale (la Puccini resta incinta). Tutto si sgretola, tutto crolla. Rubini si rivela uno spietato dittatore – arrivando a controllare la vita di Adrian – e per di più ancora follemente innamorato di Gloria. Comincia così a tessere una ragnatela mortale per la coppia, in cui da una parte farà avvicinare a sé Adrian sempre di più, dall’altra lo farà odiare sempre di più da Gloria, preparando il terreno per l’atto finale: la morte dell’artista, la disperazione di Gloria, e il conseguente ritorno della donna amata nella sua vita.

 Il Film: Non l’ho capito. E neanche mi riesce di classificarlo, almeno per quanto riguarda il genere (Drammatico? Commedia? Thriller?). Invece, trovo meno difficile classificarlo in generale: tranquilli, siamo di fronte a un filmetto. La storia non sarebbe nemmeno stata brutta, anche se c’hanno buttato dentro troppa roba: un ottimo ambiente, storia d’amore, thriller, epilogo drammatico. Bastava sviluppare una sola di queste componenti e sarebbe riuscito tutto meglio. Anche perché alla fine il mondo dell’arte  – con tutto quello che c’è dietro – i meccanismi per cui un artista sfonda e tanti altri no, sono sconosciuti alla maggior parte della gente, mi ci metto anche io; non conosco minimamente le dinamiche che regolano un ecosistema che – secondo l’immaginario collettivo – si regge su pochi “oligarchi” che scelgono cosa è arte e cosa no, sarebbe interessante capire come funziona. Per assurdo anche le opere di Adrian sono credibili – delle vaccate che possono essere scambiate facilmente per opere di arte contemporanea.

Quello che – secondo me – non è credibile e ha del tutto rovinato il film, è la recitazione. Scamarcio, si sa, recita solo con la faccia e con lo sguardo di ghiaccio che applica in tutti i film, stesso aspetto tenebroso, stesso spessore narrativo, cioè nessuno spessore interpretativo. La Puccini anche lei, bella eh, però ci mette sempre troppo pathos, troppo tesa, troppo teatrale, troppo esagerata (anche se il suo personaggio richiede un po’ di drammaticità). Rubini, che dovrebbe essere il cattivo (e anche il più bravo della compagnia), è cattivo solo perché la “storia” glie lo consente, della serie io sono il cattivo perché faccio questo e quest’altro; mi è sembrato, insomma, poco inserito non tanto nel contesto, quanto nel personaggio, poco spontaneo, un cattivo molto stereotipato. Se poi uno ci mette delle battute che rasentano il ridicolo, frasi fatte, già sentite, e un amore, quello tra la Puccini e Scamarcio, che nasce dopo solo cinque minuti di film, il mio giudizio non può che essere negativo.

Voto: 4,5. Se contassero solo i venti minuti finali il voto si avvicinerebbe tranquillamente allo Zero, soprattutto per “la perla” geniale della morte del protagonista, che da sola vale una decina d’imprecazioni ai titoli di coda. Questo voto è anche troppo magnanimo, forse perché Rubini come regista non mi dispiace (La Terra è un buon film) e spero sempre che faccia delle pellicole su un altro livello. Purtroppo, non è questo il caso. Ah sì, c’è anche Paola Barale a recitare, questo dovrebbe bastare per far desistere dal vedere il film anche il più fogato dei fogati.

Vitellozzo.

 

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Point Break – Punto di Rottura

Kathryn Bigelow, Usa, 1991, 110 min.

Trama: Johnny Utah (Keanu Reeves)è un novellino dell’ FBI a cui è affidato l’incarico di scovare gli “Ex-Presidenti”, una banda criminale che compie rapine in banca e che usa come maschere quelle di Carter, Reagan, Nixon e Johnson, ex presidenti degli Stati Uniti, appunto. Con l’aiuto del suo collega Angelo Pappas  – nome incredibile –  che per primo intravede la possibilità che questi criminali possano essere dei surfisti  (i quali usano i soldi delle rapine per girare il mondo in cerca di onde) ,Utah riesce a infiltrarsi nel mondo del surf. Impara a surfare grazie all’aiuto di Tyler (Lori Petty), e conosce Bodhy (Patrick Swayze), una specie di “santone della tavola”, con cui si instaura subito un forte legame.

Il Film: Bella la storia. Belle le scene. Bravi gli attori, sì, anche Keanu Reeves. Due parole su Reeves. Poerino, non è che sia mai stato un gran che come interprete, e, a dire la verità anche in questa pellicola si vede che non è un attore, però nel film ci sta bene, non si nota poi tanto che è un pischello; basta la presenza fisica,  e questo è sufficiente. Anche la scelta di Busey (Angelo Pappas) come comprimario è stata azzeccata, visto il suo ruolo da protagonista in Un Mercoledì da Leoni. Un film d’azione onesto, asciutto, senza scene alla “io sono il ganzo piglio un tagliaunghie e ammazzo tutti”. Oddio, forse una scena di questo tipo c’è, ma una sola (non vi dico quale); una la possiamo tollerare, è comunque un film d’azione, non uno con Woody Allen.

Ovviamente c’è la storia d’amore, ovviamente c’è l’inseguimento finale, ovviamente il finale è bellissimo. Bellissimo è anche il rapporto di amicizia/odio che si instaura tra Utah e Bodhy. Da una parte la legge, dall’altra la ribellione contro le regole precostituite e gli obblighi. Nonostante le differenze esteriori, Utah si lascia trasportare da Bodhy in un mondo totalmente diverso dal suo, rimanendone stregato.  Non possiamo che restare affascinati dalla figura di Bodhy, questa figura controversa (verso la quale la critica non fu tenerissima) un mistico, un illuminato, pronto a dare tutto se stesso per il brivido dell’onda da cavalcare fino all’ultimo centimetro d’acqua, l’uomo che insegue i suoi sogni fregandosene delle regole (“se vuoi il massimo, devi essere pronto a pagare il massimo”).  Va con dios amigo.

Voto: 7. Mi ricordo che quando uscì il primo Fast & Furious, ci fu una specie di isterismo collettivo: uuuh! che fico Vin Diesel, uuuh! le macchine truccate, uuuh! che storia avvincente! Ragazzi, guardatevi Point Break (1991!) e ditemi se non ci trovate alcune piccole somiglianze.  Ma i film belli hanno questo di particolare, che quando poi te lo copiano ti viene solo da sorridere..

Vitellozzo.

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American Psycho

Mary Harron, Usa-Canada, 2000, 101 min.

Trama: Fine anni ottanta. Patrick Bateman (Christian Bale) ha una vita perfetta. E’ ricco, bello, vive a Manhattan, dove lavora come broker in una grossa società. Frequenta i locali più esclusivi e alla moda, e assieme alla sua ristretta cerchia di amici dello stesso ambiente, conduce la sua vita nella gabbia dorata di Wall Street, dove l’apparenza è tutto, dove l’abito fa il monaco, dove il riuscire a prenotare al Dorsia – il ristorante più in della città – fa la differenza tra un perdente e un vincente. Patrick Bateman è anche un pazzo omicida, che la notte gira per la città in cerca delle sue vittime, che tortura e uccide nel buio della strada o del suo appartamento, usando coltelli, asce, motoseghe..

Il Film: Questo film è una bomba. Punto. A quelli che dicono che è un film troppo violento, dico solo – oltre a non capire un cazzo di cinema – che, rispetto al libro, il regista si è trattenuto parecchio. Apro e chiudo una parentesi: a tutti quelli (specialmente gruppi femministi) che all’uscita del film hanno portato avanti un’aspra protesta nei confronti del regista (poiché nel film la figura della donna è bistrattata in vari modi), dico solo che il regista si chiama Mary, e non è un transessuale: quindi, state buoni, e godetevi il film per quello che è, un cazzo di film. Niente di più.     Questo è uno dei rarissimi casi in cui la trasposizione cinematografica di un libro (di B. E Ellis) non  ti porta a maledire chi ha avuto il coraggio di girare una puttanata simile nonostante la base cartacea sia ottima. No, fortunatamente, non è questo il caso. Quello che i registi che si avventurano in questo genere d’imprese non capiscono, o non vogliono capire, è che basta solo una cosa per fare un bel film da un bel libro: attenersi al libro, basta, non devono fare altro.

In questo caso, Mary Harron ha fatto il suo dovere. American Psycho è dinamite, è un  viaggio psichedelico nel mondo dell’alta finanza newyorkese degli anni ‘80, l’età dell’oro della speculazione finanziaria globale,  che da sempre ha popolato le fantasie della gente comune, una vita di là da ogni limite, tra feste esclusive, belle macchine, ristoranti di lusso, donne stupende e disponibili e, ovviamente, droghe di ogni tipo. Onnipotenza e aridità affettiva regnano sovrane nella vita del protagonista, che con ghigno superbo dilania la sua vita come le sue vittime.                                                                                                                                        Patrick Bateman non è altro che il surrogato di quella società, e la sua follia è il prodotto marcio di uno stile di vita che in quegli anni, per la prima volta, s’imponeva come modello dominante dell’uomo di successo, modello non molto dissimile da quello odierno, a ben vedere. Colonna sonora doverosa in pieno stile 80’s, con brani di Bowie, Phil Collins, e Dead or Alive, anche se uno sforzo in più sarebbe stato gradito.

Voto: 8. Da quello che avete letto sopra, è chiaro che questo film è uno dei miei preferiti. Il mio commento è chiaramente di parte.  E’ un film strano: puoi amarlo, oppure ti può far schifo o non darti nulla a livello emotivo, non ci sono mezze misure. Ovviamente poi c’hanno fatto il sequel, ovviamente noi si lascia fare lì dove è, nella sua mediocrità; sarebbe come dire che la merda è più buona di un piatto di lasagne.

Vitellozzo

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Prova A Prendermi

(Catch me if you can)
Steven Spielberg, Usa, 2002, 141min

Trama: La storia si ispira all’autobiografia di Frank Abagnale Jr. ragazzo che negli anni 60 riuscì, tramite truffe finanziarie, a guadagnare qualche milione di dollari in tutto il mondo.

Il Film: Probabilmente è l’ultimo film bello di Spielberg, ed è di 10 anni fa. Poi ha deciso di dirigere e produrre vagonate di effetti speciali su alieni e robot, consapevole comunque di ricavarci vagonate di dollari.
Il modo in cui Frank (Leonardo di Caprio) compie le truffe è divertente e sostiene il ritmo veloce del film, che si basa soprattutto sul rapporto tra lui e l’agente FBI Tom Hanks: incontri casuali o mancati all’ultimo secondo e telefonate confidenziali accendono tra i due una sfida personale.
Leggero, coinvolgente, Spielberg si ricorda di saperci fare in regia (per poi dimenticarsene) e riceve le approvazioni non solo del pubblico, ma anche del vero Frank Abagnale, rendendoci partecipi di una storia tanto vera quanto incredibile. Nomination all’oscar per Christopher Walken, eccezionale nel ruolo del padre, ed ennesima nomination per John Williams e le sue musiche, ma ormai non ci stupiamo più di quanto siano immense le sue colonne sonore. Piccola nota di merito ai titoli iniziali, sequenza grafica e musicale perfetta.

Voto 7: Steven ti ho sempre ammirato, e spesso mi hai fatto sognare, qui sei anche quasi riuscito a farmi stare simpatico Di Caprio. Basta robot, alieni, e esplosioni, torna a raccontare storie.

Capitano Quint

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