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Giovanni Lindo Ferretti – live @Flog Firenze

copertinaCronaca di un Live. Firenze, Flog 8maggio2013. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento. Avevo una sola immagine in testa di Giovanni Lindo Ferretti: lui completamente rasato. Sempre. L’ho visto con la cresta, con la scritta CCCP su un lato, ma rasato era l’unica certezza che avevo. Certezza spazzata via appena salito sul palco, con i capelli fluenti, rasati sopra la fronte e senza basette. Le mani in tasca, un’improbabile cravatta. 60anni, un uomo serio e serioso, con del punk nascosto da qualche parte.
Applausi scroscianti.

“Gentilissimo pubblico…ricordo, circa 25,26 anni fa, ero appeso qua ad urlare SPARA JURIJ! Non si sa mai, attenzione…”
Sapendo che non ci sarebbe stata la minima possibilità di vederlo appeso ad urlare, temevo invece un concerto all’estremo opposto, temevo letture, litanie, preghiere, secondo le notizie degli ultimi anni, che parlavano di un uomo molto religioso, in pace con se stesso, ovviamente lontano dai CCCP, e anche dai CSI.

E invece piacevolissima sorpresa. Lo trovo sempre FEDELE ALLA LINEA, con due musicisti, Ezio Bonicelli e Luca Rossi (ex Ustmamò), che danno tutto sul palco. In due per due chitarre, un basso, un violino, e un mac, eccezionali. Lui al centro, occhi chiusi, bocca attaccata al microfono, voce bassissima, tenebrosa, che poi si alza (magari non benissimo) per scandire le sue classiche parole, come TRRRREMA per un non so TRRREMA. A volte si stacca e si appoggia alla parete in fondo al palco. Mi viene da ridere per i commenti su internet di chi diceva che è la macchietta di se stesso, costretto per soldi a fare sempre le vecchie canzoni. Non me ne frega un cazzo. Me l’ha fatte tutte, tutte magnifiche, tutte dando il massimo

Ripescando il punk dei CCCP (la gente pogava eh), zittendo tutti con le atmosfere dei CSI, facendo cantare tutti con le più famose. Il bis che comprendeva Emilia Paranoica e Unità di Produzione ha finito la gola a tutta la Flog. E poi se l’era chiamata dall’inizio, non poteva non farla: SPARA, SPARA, SPAAARA!! Senza appendersi da nessuna parte, sciogliendosi alla fine in una specie di balletto.
Grande live, grande artista. Conforme a chi, conforme a cosa.

Capitano Quint

Scaletta (dovrebbe essere vera):

Canto Eroico
Tu Menti
Amandoti
Tomorrow
Mi Ami
Oh! Battagliero
And The Radio Plays
Radio Kabul
Polvere
Occidente
Cupe Vampe
Annarella
Del Mondo
Barbaro
Per Me Lo So
Irata
Ombra Brada
Emilia Paranoica
Unità di Produzione
Spara Jurij!

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Le luci della Centrale Elettrica

Il babbo è Vasco Brondi, cantautore ferrarese che debutta nel 2007, con questo nome, Le luci della centrale elettrica appunto, che sono poi le luci dell’ex Montedison a Ferrara. Cito direttamente da Wiki: “Più che la centrale elettrica in sé sono queste luci. Forse mi piaceva come immagine, quello che era […] Quindi è questa entità Montedison che mi piaceva evocare, e soprattutto le luci della Montedison in quel fumo che esce, questa attrazione serale che spesso è l’unica che c’è in città”.

Una demo autoprodotta del 2007 – che a detta di (quasi) tutti è il lavoro più riuscito – e due album, Canzoni da spiaggia deturpata (2008) e Per ora noi la chiameremo felicità (2010), sono quanto fino ad oggi ci ha regalato questo gruppo. Più che canzoni nel senso classico del termine Brondi si “limita” a cantare a modo suo, i suoi pensieri messi su carta; in realtà lo stile è un po’ obbligato, visto che per sua stessa ammissione non è un buon cantante. Spesso c’è solo una chitarra, qualche accordo e giù parole, cambia la tonalità, cambia l’intonazione, cambia l’umore del cantante, il quale dipinge molto bene questo periodo storico, una generazione allo sbando, annegata nei ricordi di un mondo che si è perso, un esercito di precari e disoccupati (L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici). Secondo me le canzoni, in generale senza fare distinzioni tra gli album, sono molto belle. Se vi piace il genere, vi consiglio di buttarci un o(re)cchio. Si pesca un po’ dappertutto, dai CCCP che non ci sono più (La gigantesca scritta Coop), agli Offlaga senza elettronica, ai Marta sui Tubi. Non si fa fatica neanche a riconoscere lo stile di Rino Gaetano (Nei garage a Milano nord è una delle mie preferite), ma c’è anche qualcosina di De Andrè e un po’ del migliore cantautorato di casa nostra.

Finalmente c’è qualcuno che racconta cosa sta succedendo, che sta andando tutto a puttane, che si sta sfasciando tutto, e parlami delle tue galere, delle nostre metafore, delle case inagibili, dei nostri voli rasoterra e poi la crisi finanziaria e ronde di merda […] chiamale se vuoi esplosioni dei mercati (Anidride Carbonica). Un po’ di realtà senza filtri, senza musichine sega, solo chitarra e voce (a volte urla, meglio). Una delle parentesi migliori di questi ’00. Visto il panorama attuale della musica italiana, satura (almeno per me) di poveracci dei talent con la data di scadenza scritta sopra, o di gruppettini del cazzo finti rock, o peggio indie, Le luci della centrale elettrica si salvano dall’oblio, segno che la musica indipendente può ancora dire la sua (e forse è rimasta l’unica), e proteggimi dai lacrimogeni e dalle canzoni inutili (Lacrimogeni), ecco proteggici anche a noi Vasco dai.

 Vitellozzo.

 

 

 

 

 

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CCCP Fedeli Alla Linea – Enjoy CCCP

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Un’erezione, un’erezione, un’erezione, un’erezione triste….per un coito molesto, per un coito modesto, per un coito molesto. Spermi, spermi, spermi, spermi indifferenti…per ingoi indigesti, per ingoi indigesti…

Si può iniziare un “best of” così?
Anzi, inizia ancora prima, con una copertina splendida: il contrasto tra la scritta CCCP sul marchio Coca Cola è qualcosa di stupendo.

1994, CCCP Fedeli Alla Linea, che ormai erano già diventati CSI, ma ci regalano questa raccolta dei loro primi album, quelli che dimostrano che il punk esisteva ampiamente anche in Italia.
Raccolta che si divide in due cd, Danza e Militanza, brani editi tra l’85 e i primi anni 90, alcuni completamente fuori di testa, altri molto profondi, tutti da ascoltare.
C’è un featuring e una cover con Amanda Lear, c’è Amandoti, che molti idioti continuano a pensare sia una canzone di Gianna Nannini, c’è Valium Tavor Serenase, c’è Huligani Dangereux, c’è Oh Battagliero (che consiglio però nella versione della colonna sonora di Tutti Giù Per Terra, con intro del poeta Carlo Monni: “non sei voluto diventare comunista, e non hai voglia nemmeno di fare soldi. Ma che bestia sei?!”)

Le più belle per me, la straziante Annarella, And The Radio Plays, ripresa anche nel live In Quiete, e Fedele alla Lira! Che oggi è quasi profetica.
A Giovanni Lindo Ferretti, e ai CSI va dato il merito inoltre di aver prodotto non solo queste perle, ma anche due gruppi: gli Ustmamò, e soprattutto i Disciplinata che restano un cult assoluto.
ENJOY!

Capitano Quint

questa apparizione in Rai vale tutto

Disco 1 – Danza

  1. Mi ami?
  2. Tomorrow (voulez-vous un rendez-vous) – con Amanda Lear
  3. Le qualità della danza
  4. Amandoti
  5. Oh! Battagliero
  6. Huligani dangereux
  7. And the radio plays
  8. Annarella
  9. Guerra e pace
  10. Inch’Allah – ça va (con Amanda Lear)
  11. Fedele alla lira
  12. Depressione Caspica

Disco 2 – Militanza

  1. Militanz
  2. A ja ljublju SSSR (Gimn sovetskogo sojuza)
  3. Conviene
  4. Noia (live – Baveno 1989)
  5. Emilia paranoica
  6. Manifesto
  7. Palestina (15/11/1988)
  8. Madre
  9. Valium Tavor Serenase
  10. Spara Jurij
  11. CCCP
  12. Radio Kabul

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Marta sui Tubi – Sushi e Coca

sushicocaChe spaccano sul serio ormai dovrebbe essere cosa nota a tutti. Che sono una delle migliori band italiane del momento, anche. Quindi mi levo subito l’argomento Sanremo, al quale il gruppo parteciperà quest’anno: il problema di Sanremo non è Sanremo, sono le canzoni che i cantanti portano a Sanremo. Finché ci sarà solo “sei bella come il sole, amore amore amore” cantata da Giggi, o da qualche profugo di Amici, sarà sempre un Sanremo di merda. Se poi i Marta Sui Tubi si uniformeranno a questo copione, allora saranno coglioni, però almeno diamogli fiducia, perché lavori come questo album, sono un piacere.

Compassione per tutti quelli che ascoltano i Negramaro, però oh dovete ascoltare questa roba, non c’è proprio paragone, come testi, come musica, come tutto. Innanzitutto complimenti per il nome, non siamo ai livelli de I Pezzi Di Merda, però il nosense va sempre premiato. Ma poi ascoltando La Spesa, come si fa a non accorgersi della bellezza del testo: “Un’altra sera a casa a masticare noia e surgelati, la tv vomitava acqua e colori, la luce dei pensieri spenta. Programmerò il mio amore artificialmente, scriverò un saggio su come perdere tempo senza sprecare nemmeno un minuto

So’ avanti. Punto. Canzoni come L’Unica Cosa, Cinestetica, sono da ascoltare di continuo. Alcune sono più serie, altre più profonde, secondo me si distinguono altre due o tre: Dio come sta? (“evidentemente assente”), Sushi e Coca (“Milano sushi e coca, Milano paga e scopa”), a anche Dominique Canzone di Gelosia (“e ti vedo ballare sporca puttana, o almeno così ora ti vedo”) con il cantato finale stile hardcore metal, che mi fa sempre ridere. Al di fuori di questo album volevo citare anche la canzone Cromatica, in collaborazione con Lucio Dalla, che è davvero ma davvero bella, testo incredibile.

  1. Arco e Sandali
  2. Cinestetica
  3. La Spesa
  4. Non lo Sanno
  5. Dio Come Sta?
  6. Lauto Ritratto
  7. L’Unica Cosa
  8. Dominique (canzone di gelosia)
  9. L’Aria Intorno
  10. Licantropo
  11. Sushi & Coca
  12. Pensieri a Sonagli

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Exile On Main Street

Rolling Stones, 1972.

La genesi dell’album è eccezionale, e ha contribuito parecchio a far entrare Exile on Main Street nella cerchia dei lavori migliori degli Stones; inevitabile accennarla un po’. Nel 1971 gli Stones sono ormai delle celebrità, con diversi album sulle spalle, tutti ottimi: Beggars Banquet del ’68 e Let It Bleed solo di un anno più vecchio, sono la punta di una carriera artistica che in meno di dieci anni ha visto questi quattro salire sul tetto del mondo per restarci. Dato che la celebrità e il successo portano sempre dei problemi, il fisco inglese sembra accorgersi di loro, e comincia a tartassare i Rolling Stones, rei di non aver pagato le tasse dovute (dovevano venire in Italia, qui non ci sono problemi con le tasse, l’offerta  è libera). Siccome non sono tipi da scendere a compromessi con il governo, tra il tutto e il niente scelgono il niente (per il fisco), caricano gli strumenti su un camion e  scappano dal Paese. Addio Inghilterra, poco male; ormai sono pieni di soldi e hanno case in tutto il mondo. Scelgono di soggiornare in Francia, a due passi.

Ora basta cercare uno studio di registrazione per il prossimo disco. La ricerca però è difficile e non porta a nulla. Allora a Richards, che forse si era rotto i coglioni di cercare, viene in mente un’ideona: registriamo l’album nella mia casina sulla costa azzurra, un piedaterre per le vacanze: villa immensa, decine di stanze, piscina e ogni stravizio, il paese dei balocchi. Presto la voglia di lasciarsi andare, di vivere alla cazzo, sull’onda bohemien della vita da artista maledetto, prende il sopravvento sull’impegno di registrare i pezzi. I quattro si ritrovano così la casa invasa o da gente improbabile che gira indisturbata per le stanze, o da amici famosi che vengono lì per divertirsi anche loro, attirati dal fiume di eroina di cui Keith diventa un avido consumatore. Anche Jagger e Wyman si scazzano della decadenza dell’ambiente e spesso e volentieri non sono presenti alle sessioni di registrazione che avvengono nella cantina della villa. Ognuno fa un po’ quel cazzo che gli pare; anche i vagabondi che affollano la villa, visto che un giorno qualcuno entra e ruba 7/8 chitarre e altri strumenti. E’ tutto molto confuso, disordinato, in un disfacimento dove non c’è un timoniere, ma solo membri del gruppo che alternativamente scrivono e registrano materiale su materiale, senza un disegno preciso, presi dalla follia di quei giorni fuori dal tempo.

E’ così che nasce Exile on Main Street, uno degli album (doppi) più belli della band, per il sottoscritto l’ultimo album degli Stones, che da quel momento in poi non hanno più prodotto roba all’altezza del loro nome. Potevano smettere dopo quest’album e nessuno avrebbe avuto da ridire, anzi, sarebbe stata la conclusione perfetta di una carriera trascorsa sempre sulle stelle. Invece ne dovevano fare altri 7000 senza senso, scelta che ha inevitabilmente finito coll’irritarmi, quando si persiste nel voler continuare a fare qualcosa di cui si è già raggiunto l’apice, che senso ha?

Per me è l’album migliore inteso proprio come insieme, perché se si vanno a prendere i singoli brani e magari si mettono a confronto con tracce di Sticky Fingers fanno fatica. La forza del disco è proprio l’eclettismo dei suoi elementi; si va da pezzi country (Sweet Virginia o Turd On The Run) ai più tradizionali Rocks Off o Tumbling Dice, dove comunque è sempre presente l’onda della musica del Sud, un po’ di blues, un po’ di soul. Dai ritmi veloci e caldi di Shake Your Lips, alla sguaiatezza di Happy, all’atmosfera più personale e intimistica della ballad Shine A Light, è un album senza direzioni, o meglio con 18 direzioni diverse. Un album che sa di terra bruciata dal sole e di viaggio verso il blues e la musica nera, tutto visto alla maniera degli Stones.

 

Vitellozzo.

  1. Rocks Off
  2. Rip This Joint
  3. Shake Your Hips
  4. Casino Boogie
  5. Tumbling Dice
  6. Sweet Virginia
  7. Torn And Frayed
  8. Sweet Black Angel
  9. Loving Cup
  10. Happy
  11. Turd On The Run
  12. Ventilator Blues
  13. I Just Want To See His Face
  14. Let It Loose
  15. All Down The Line
  16. Stop Breaking Down
  17. Shine a Light
  18. Soul Survivor

 

 

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Led Zeppelin – Dazed And Confused

LedZeppelinLedZeppelinalbumcoverEsistono tre versioni di questa canzone: l’originale, la copia, e la migliore.
Un po’ come dice De Niro in Casinò: “ci sono tre modi di fare le cose, il modo giusto, il modo sbagliato, e il modo in cui le faccio io”, e qui “io” sta per Jimmy Page.

Allora il brano è stato scritto e inciso per la prima volta nel 1967 da Jake Holmes, un brano folk, teso, chitarra e basso, frasi spezzate, ritmo che cala, e risale in un finale strumentale. Fortuna o sfortuna vuole che questo sconosciuto Jake Holmes, accompagni e apra l’anno successivo i concerti degli Yardbirds, che dopo aver perso Eric Clapton e Jeff Beck, avevano scelto come chitarra solista il giovane Jimmy Page. E insomma leggenda vuole che durante uno di questi concerti il gruppo sente la canzone di Holmes, e decide di farne una cover. In questa versione ci sono diverse novità: l’intro realizzato basso e batteria con qualche suono di chitarra, un clima più tendende all’hard rock, e la tecnica di Jimmy pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Grandissimo assolo, ma si può fare ancora meglio. Sciolti gli Yardbirds, nel ’68 c’è una band nuova che sta preparando il suo disco d’esordio. Jimmy è il chitarrista, Robert Plant il cantante, John Paul Jones il bassista, e Bonzo il batterista. Non ho idea di come fu gestita la questione diritti d’autore, ma quello che importa è che i 4 decidono di farne un’altra versione, la versione definitiva, inarrivabile, immensa.

Quando parte quella introduzione di JPJ sono sempre lacrime, poi la voce toccante di Plant e subito una prima esplosione di chitarra. Sei minuti e mezzo di piacere fisico. Tutto per arrivare a quando Jimmy, e Bonzo decidono di spaccare tutto, senza regole, senza limiti, solo picchiare duro. In una famosa versione live Page suona la chitarra con l’archetto di un violino, ti rapisce, poi parte Bonzo, e finisce il mondo. Quanto picchia nel finale non è spiegabile a parole. Ti dà na carica diocristo.

Capitano Quint

 

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Kill ‘Em All

Metallica, 1983.

Premessa doverosa: in realtà non dovrei essere io a scrivere di Kill ‘Em All, nonostante stimi veramente tanto i Metallica e gli abbia tributato – insieme ai Maiden –  3/4 anni della mia vita coi capelli lunghi a pogare. Non dovrei essere io, perché se c’è qualcuno che avrebbe il sacrosanto diritto di trattare il metallo, questo sei solo tu, Lele. Se stai leggendo, devi sapere che da parte nostra l’offerta è ancora valida. Non c’è nessuno meglio di te per consolidare l’inutilità di questo blog con una pagina sul metal.

Detto questo, l’album. E’ il primo dei Metallica, se si escludono dei demo precedenti alla sua uscita ufficiale. E’ il primo di una lunga serie di lavori che dall’83 fino a oggi ha venduto milioni di copie nel mondo, meritatamente o meno. Perché se alcuni album sono delle pietre miliari, di altri non se ne sentiva la mancanza, soprattutto gli ultimi in ordine di tempo. Devo ancora smaltire il colpo ricevuto dalla collaborazione con Lou Reed che ha dato vita a una merdata colossale, il bellissimo fantastico album Lulu, peggio di una martellata sulle palle. Per fortuna, Kill ‘Em All appartiene al primo gruppo. Diciamo subito una cosa: per ascoltare i Metallica non bisogna essere vestiti di nero con borchie anche sul culo, pantaloni di pelle aderenti come carta velina, anfibi d’estate e capello lungo, queste son tutte cazzate. Il metallaro classico sta scomparendo; sì, ogni tanto a giro c’è ancora qualche esemplare, ma sono sempre più rari, e abbastanza ridicoli nel voler proseguire uno stile di vita di un epoca che non c’è più (chi altri c’è rimasto a fare metal che possano prendere il posto dei Metallica, ammesso che sia possibile’). Per ascoltare i Metallica l’immagine è superflua, inutile, tanto è vero che anche loro col tempo hanno virato verso un aspetto leggermente più sobrio. Una cosa però ci vuole sempre: la rabbia. Kill ‘Em All è la rabbia di James Hetfield che non canta, urla, è la batteria di Lars Ulrich che si finisce le mani in sessioni disumane di furore,  percussioni velocissime e martellanti, è il basso sepolcrale di Cliff Burton , è la chitarra di Hammet, lancinante, e grezza. La stessa copertina non è un invito a prendere il tè coi pasticcini, al limite la tazzina te la spaccano in testa.

Dire due parole su ogni brano sarebbe abbastanza ridicolo, e anche senza senso, visto che la divisione in queste 10 tracce è puramente dettata dalla necessità; avrebbero potuto scrivere “Metallo” e fare un unicum di 60 minuti, io non mi sarei certo lamentato. Tanto quando ascolto Hit the Light dopo 30 secondi non so più nemmeno dove sono, i minutaggi e le pause non contano più un cazzo, per me c’è solo Hetfield nella sua canotta nera e coi baffetti rossicci tutti sudati che urla “well’kick your ass tonight!” e Hamme(R) che ti lancia assoli come cannonate. Un album che se la prende con tutto il mondo, fatto da 4 che il mondo lo vogliono distruggere come i cavalieri dell’apocalisse (The Four Horsemen). Dei testi che – seppur grezzi e ancora acerbi – sembrano scritti da Pascoli per quanto sono tranquilli: Look up your wife and children now / it’s time to wield the blade. Bisogna dire che senza gli attacchi Ulrich alla batteria Kill ‘Em All sarebbe stato tutto un altro disco – solo Anesthesia Pulling Teeth attacca con le chitarre – quindi ringrazio la famiglia di Lars che lo portò in America. E ringrazio anche i Motorhead che hanno ispirato i Metallica che gli hanno dedicato Motorbreath, vero e proprio omaggio a un’altra grande band con un idolo assoluto come frontman (il pezzo è vicinissimo in effetti alle sonorità dei Motorhead).

Piacerebbe anche a me che l’heavy-metal tornasse a ricoprire il posto che gli spetta nella scala della musica, che le radio ricominciassero a passarlo, che i canali musicali – invece di mandare i soliti due video due dei Metallica, i più conosciuti Enter Sandman e Nothing Else Matters – mandassero anche altra roba che questi ragazzotti hanno girato. Mi piacerebbe, ma so che non succederà. Tanto peggio per i bimbiminkia che oggi si fanno le seghine su gruppetti del cazzo, io son tranquillo, ho la coscienza apposto, metto su No Remorse, e se non mi basta vado avanti con Metal Militia, pregustando già il momento in cui Hetfield urlerà “Metaaal Milisciaaaa!”.

Vitellozzo.

  1. Hit The Lights
  2. The Four Horsemen
  3. Motorbreath
  4. Jump In The Fire
  5. (Anesthesia) – Pulling Teeth
  6. Whiplash
  7. Phantom Lord
  8. No Remorse
  9. Seek And Destroy
  10. Metal Militia

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Coda – Led Zeppelin

Led Zeppelin, 1982

Con “coda” in musica si intende la parte finale, la fine di un brano. Con questo album finisce molto di più di un brano. Quello che significa questo album lo possono capire solo quelli che anche a distanza di 30 anni continuano a passare pomeriggi interi ad ascoltare i Led Zeppelin. Esce nel 1982, a due anni di distanza dallo scioglimento del gruppo a causa della perdita di John Bonham, e contiene tracce rimaste inedite nel corso degli anni ’70. Il valore che assume quindi, se si pensa che sono gli ultimi colpi alla batteria di Bonzo che sentiremo, va al di là di un semplice ultimo disco. Questo è un omaggio, un tributo, con tanto tanto blues e rock di livelli superiori, che Plant, Page, e Jones, dedicano all’amico, e non c’è niente di più toccante.

La frase più famosa l’ha detta probabilmente Billy Joel: “Il Rock and Roll è morto il giorno in cui è morto John Bonham”, e forse è vero, o forse no, perché ogni volta che l’ascolti ti dà sempre la stessa carica diocristo e quindi magari non morirà mai, né il Rock, e nemmeno Bonzo. Quello che ha dato Bonham (morto, come Hendrix, soffocato nel proprio vomito) al rock non sto nemmeno a dirlo, mi interessa quello che ha dato a me, insieme ovviamente ai tre compagni: mi ha fatto divertire, mi ha fatto agitare, mi ha fatto godere di musica. Il successivo scioglimento è secondo me una delle cose più belle (e dolorose) mai successe nella musica, per quanto viene detto nel comunicato ufficiale: “non possiamo più continuare come eravamo”. In questa frase c’è tutto. Massimo rispetto per tutte le rock-star che continuano a suonare anche a 70 anni, massimo rispetto per le carriere soliste di Jimmy Page, e Robert Plant (meglio la seconda della prima), e un grande augurio a JPJ per l’avventura con i Them Crooked Voltures, ma la decisione di cessare il progetto Zeppelin è il più grande omaggio che potessero fare a Bonzo, l’anima del gruppo.

Riporto direttamente da Wikipedia un aneddoto: Nel 1976 si recò ubriaco nel backstage durante un concerto dei Deep Purple. Quando notò un microfono libero salì sul palco; il gruppo smise di suonare mentre Bonham urlava al microfono: “Sono John Bonham dei Led Zeppelin e voglio semplicemente annunciarvi che abbiamo un nuovo album in uscita: si chiama Presence e, cazzo, è fantastico!”. Prima di andarsene si voltò verso il chitarrista dei Deep Purple e lo insultò dicendo: “E per quanto riguarda Tommy Bolin, non sa suonare una merda!”. Ecco se mi devo immaginare Bonzo me lo immagino così: in cima al mondo, con tutte le altre rock band ai suoi piedi.

E per chi avesse ancora dei dubbi sulla sua immensità in questo album è presente Bonzo’s Montreux, assolo assoluto, assolutamente solo lui. Oh poi ci sono anche gli altri tre eh.

Capitano Quint

  1. We’re Gonna Groove – 2:38
  2. Poor Tom – 3:02
  3. I Can’t Quit You Baby (live) – 4:16
  4. Walter’s Walk – 4:31
  5. Ozone Baby – 3:35
  6. Darlene – 5:07
  7. Bonzo’s Montreux – 4:18
  8. Wearing and Tearing – 5:29

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For Emma, Forever Ago

Bon Iver, 2007.

I ringraziamenti per l’articolo vanno all’amico Andrea, che tra qualche cacata indie e ridicoli gruppi finti punk-rock,  ogni tanto mi passa anche roba di qualità, come questo disco. E’ un album speciale, senza una band.  Quando dico che non c’è una band intendo proprio che c’è solo una persona che ha scritto, suonato, cantato e prodotto le canzoni: Justin Vernon.

Già di per sé, la storia di come il ragazzo Justin Vernon è arrivato a chiamarsi Bon Iver e a pubblicare “For Emma, forever ago” è fantastica, e merita di essere raccontata. Fino al 2006 era sconosciuto, provava con tutte le sue forze a sfondare, ma non ce la faceva: vari progetti musicali non avevano fatto altro che far scorrere la lancetta del tempo, che ormai puntava sui 25 anni. Il tempo limite per fare il grande salto stava per finire. A questo si aggiunge la mazzata, si lascia con la sua ragazza. Allora, Justin fa quello che avrei fatto anche io, e cioè manda tutto a fanculo e se ne torna a casa nel Wisconsin. L’inverno dal babbo gli fa bene (Bon Iver è la storpiatura americana del francese bon hiver,  buon inverno) perché lo scazzo piano piano finisce e ricomincia a fare musica, da solo. Ha con sé solo l’essenziale, una batteria e qualche chitarra, ma gli bastano. L’atmosfera tranquilla e raccolta di casa contribuisce in maniera determinante nel tracciare l’aspetto di fondo dell’album, molto intimistico, silenzioso, e semplice. La pochezza degli strumenti musicali, oltre che le sbavature sonore in qualche punto dell’album, rendono tutto molto più vero, autentico cantautorato fatto in casa. Ogni brano entra il punta di piedi, l’attacco è una chitarra che si sente appena, melodia sullo stesso livello per tutto il pezzo, a volte accompagnata da  percussioni in cui le bacchette non sfiorano mai i piatti (Flume).

La voce è l’altro aspetto caratteristico dell’album: Vernon sembra giocarci in ogni traccia, a volte cantando in falsetto, senza mai esagerare, centellinando le note alte (Lump Sum), altre sembra invece far uscire le parole con più naturalezza, in brani intensi, anche nella voce, come in Skinny Love, rivelando tutta la natura folk del disco. Team è invece, un momento solo strumentale, in cui la batteria la fa da padrone – e dove, per la prima volta nell’album – sentiamo un po’ di piatti. Assolutamente da citare anche The Wolves (Act I And II), pezzo quasi gospel, dove nel finale gli strumenti crescono di intensità, sorretti da un falsetto a voci sovrapposte che completa forse il miglior pezzo dell’album, insieme a Lump Sum.

Quest’album è per tutti quelli che ancora non sanno cosa fare della propria vita, che si sentono un po’ smarriti e confusi. Per quelli come noi c’è ancora una speranza, basta fare come Justin Vernon: andare nel Wisconsin e comprarsi una capanna. Chiudersi dentro e fare musica; o anche solo ascoltare For Emma, forever ago.

 Vitellozzo.

  1. Flume
  2. Lump Sum
  3. Skinny Love
  4. The Wolves (Act I And II)
  5. Blindsided
  6. Creature Fear
  7. Team
  8. For Emma
  9. Re: Stacks

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Maggot Brain

Funkadelic, 1971

La canzone ha lo stesso nome dell’album del 71 firmato Funkadelic. Loro sono il gruppo più colorato, pazzo, estroso, e geniale del funk americano. Sono più o meno gli stessi componenti dei Parliament, guidati sempre dal leader assoluto George Clinton, una figura mitologica. Ritmo, vestiti colorati, tanto tanto casino, divertimento, erotismo, tutto il meglio della musica funk anni 60/70. L’album è bellissimo, Stupid Stupid è fortissima, così come Hit it and Quick It. Chi ha detto che una funk band non può suonare anche il rock?

Qui però le cose sono diverse. Questa canzone di nove, dieci minuti è qualcosa di più. Ascoltata in silenzio da solo, per quei dieci minuti, ti leva dal mondo. Anzi non va nemmeno ascoltata, va proprio sentita, sentita nello stomaco. Una leggera batteria accompagna la straziante chitarra di uno dei miei miti: Eddie Hazel.

La leggenda vuole che Clinton, sotto LSD, abbia detto ad Hazel: “suona come se tua madre fosse appena morta”. Sono i classici aneddoti del rock, nessuno sa se sia vero. Ma è sicuro che una volta finita la canzone si può dire: ha suonato come se sua madre fosse appena morta. La chitarra di Eddie è lancinante, ti fa stare male, ti entra in corpo come una lama. Per quei dieci minuti ti isola da tutto, non cala mai di tensione, non va mai sopra le righe. Uno dei più grandi assoli di sempre, eseguito da uno dei più grandi chitarristi di sempre. Quando si pensa ad un chitarrista nero chiaramente si pensa subito ad Hendrix, ecco, io qui voglio bestemmiare: a volte, ogni tanto, preferisco Hazel a Hendrix.

Eddie muore nel 1992, a 42 anni. L’album solista del 1977 Games, Dames and Guitar Thangs contiene varie perle e alcune cover come California Dreamin e I Want You dei Beatles, rifatte alla sua maniera. Altri tre album sono usciti postumi. Sapere che al suo funerale è stata suonata Maggot Brain mi ha condizionato ancora di più a pensare a lui ogni volta che la sento. Un grande pezzo, un grande artista.

Capitano Quint

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Appetite for Destruction

Guns N’ Roses, 1987, Geffen Records.

Quando mi sento un po’ giù ascolto i Guns. Quando mi sento su, invece, ascolto i Guns. Quando mi annoio, pensate un po’, ascolto i Guns. Quando in televisione mandano un video dei Guns, lo guardo sempre tutto, anche se è un video del cazzo (come November Rain o Don’t Cry tanto per non fare nomi). Tutto questo non perché i Guns siano il mio gruppo preferito, ma perché vederli e ascoltarli mi fa pensare a quella vita da rockstar forse più di qualsiasi altro gruppo (si salvano gli Zep, superiori in tutto, anche nel buttarsi via), quella vita che gente normale come me o come chi legge non vivrà mai, al di sopra delle regole, dove non c’è più giusto o sbagliato, ma solo intere generazioni di ragazzi che hanno passato anni ad ascoltare la tua musica, e di te li davanti a centomila stronzi a sonare, con la certezza che il concerto non finirà sul palco, ma continuerà nel backstage in mezzo ad alcol e signorine succinte e disinibite. Io li ascolto, e già il fatto di poter immaginare tutto questo, mi basta. Sì, mi accontento di poco.

Che poi la band di Los Angeles abbia saputo vendersi benone, ai giornalisti (pensate alla faida contro i Motley Crue), ai fan, ai media, è fuori questione. Però non si può dire che si siano tenuti, hanno dato tutto quello che potevano dare alla musica, si sono consumati nella mente e nel corpo (Steve Adler e Duff McKagan in particolare), non perdendo però l’aspetto del business, che in America conta molto più del talento. In effetti nella scena glam ’80 le street band come i Guns erano parecchie, ma allora perché gli altri non hanno sfondato? Ci vuole fortuna, fare una certa musica nel posto giusto al momento giusto, ci vogliono idee, ci vogliono le palle, certo anche due come Axl e Slash fanno sempre comodo per sfondare, e poi ci vuole un album d’esordio come Appetite For Destruction – che rimane la punta più alta raggiunta dalla band. Ripeto, la punta più alta, ineguagliato. Questo per togliere ogni dubbio circa i successivi Use Your Illusions: non c’è storia, era tutto già sentito, tutto già visto, bello il tour eh (immenso, di 2 anni), ottime le vendite (dovute più all’onda del precedente successo che all’effettivo valore degli album), ma il paragone con il loro primo lavoro non va nemmeno pensato. Altro mondo.

Quest’anno poi è il 25ennale dalla pubblicazione, sono obbligato a scrivere due righe, anche se fa caldo e mi sudano le palle. Su Welcome to the Jungle – pezzo che apre il disco – non dico niente, perché è già stato detto tutto: immenso, e nato quasi per caso, sull’impressione suscitata da un barbone incontrato per strada che urlò ad Axl e soci “you’re in the jungle baby! You’re gonna die!” (probabile leggenda metropolitana però ci voglio credere, d’altronde l’America è il paese delle possibilità). Siamo di fronte a un pezzo cardine dell’hard-rock. Possiamo dire comunque, che tutto l’album si muove lungo una trama decisamente rock, con pezzi di strada come Nightrain o Out Ta Get Me, dove le chitarre hanno il sopravvento in tutta la loro irruenza sonora, a Paradise City, dove – oltre al ritornello immortale – si sperimenta l’attacco corale, che verrà poi ripreso anche in lavori successivi (ad esempio Don’t Cry), a pezzi totalmente diversi sia per le tematica che per il cantato, molto veloce, quasi rap (Mr. Brownstone). Sarò banale, ma i miei pezzi preferiti sono anche quelli preferiti dalla maggioranza e anche da chi un album intero dei Guns N’ Roses non l’ha mai ascoltato: You’re Crazy, perché le schitarrate incazzate sono sempre ben accette, e ovviamente Sweet Child O’Mine, con Axl che torna nella sua dimensione di canto miagolato, e Slash che fa quello che sa fare meglio, cioè uno degli assoli migliori di sempre. Esagerato.

Vitellozzo.

1. Welcome To The Jungle
2. It’s So Easy
3. Nightrain
4. Out Ta Get Me
5. Mr. Brownstone
6. Paradise City
7. My Michelle
8. Think About You
9. Sweet Child O’ Mine
10. You’re Crazy
11. Anything Goes
12. Rocket Queen

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Socialismo Tascabile (Prove tecniche di trasmissione)

Offlaga Disco Pax, 2005.

Scoperti casualmente l’anno scorso. Me ne sono innamorato, escono questo anno con il loro terzo album, dove ripropongono la stessa formula di questo primo lavoro, Socialismo Tascabile: musica elettronica, e testi recitati. Oh non aspettavo altro, che qualcuno cioè mi dimostrasse che l’elettronica può convivere benissimo con un testo parlato, e che elettronica. Si sentono perfettamente i Kraftwerk, le basi sono stupende, creano un atmosfera che contorna perfettamente le piccole storie narrate.

L’argomento principale sembra essere il lontano ricordo di una situazione sociale e politica che purtroppo non vivrò mai. Sono storie nostalgiche di un tempo che appunto non c’è più, di un “quartiere dove il PC prendeva il 74% e la DC il 6%”, dove regnava “una scritta degli ultras della Reggiana: Grazie Regan, bombardaci Parma”, storie fatte di piccoli ricordi, dell’odio verso un professore (Kappler), di un viaggio a Praga dove in discoteca con grande sorpresa e tristezza parte Felicità di Albano e Romina. Tutte raccontate con una semplicità e raffinatezza che ti fanno sentire veramente partecipe e afflitto per non aver vissuto quel periodo, gli anni 70/80.  E allora ecco che il professore decide di farti fare il compito di recupero, a te che hai saltato tutti i precedenti, e dopo aver preso 8, reclami la stessa media perché hai la faccia come il culo, ecco che c’è da risolvere il mistero della sparizione della gomma al gusto Cinnamon, che si esalta la comodità della ciabatta Defonseca, ecco che si arriva ad Enver, canzone di un amore finito, bellissima anche solo per l’immagine del ritornello: “Hai lasciato piazze piene, urne vuote, tremori gentili, tracce sottili, tracce profonde sugli zerbini dei miei pianerottoli”. Un po’ di Federico Fiumani, un po’ di Massimo Volume, un po’ di CCCP in questi testi, scritti molto bene, si vede che le parole sono scelte con attenzione in modo che si adattino con perfezione alla base. E poi c’è la descrizione di questi paesini dell’Emilia, con la loro toponomastica, e i loro miracoli (“Ricordate la madonna che piangeva sangue a Civitavecchia?… Ebbene, in un impeto di ribellione per tanta imbecillità, in quei giorni, anche il busto di Lenin cominciò a lacrimare). Altra chicca è Tono Metallico Standard, di cui basta citare questa strofa che si svolge in un negozio di dischi: Sento una bella canzone e gli chiedo chi è che canta. Con la solita faccia mi risponde col suo tono metallico standard e dice rassegnato “E’ Mark Lanegan” Poi un lampo di vita, si ridesta dai suoi pensieri troppo alti e scollegati e mi comunica deciso: “Non credo che tu lo conosca, era il cantante degli Screaming Trees”. Ora capisco. Il mio aspetto ordinario gli trasmette ascolti deplorevoli. Ma io lo so chi è Mark Lanegan, arrogante bottegaio  indegno della roba che vendi qui dentro, alternativo dei miei coglioni che quando io ascoltavo i Dead Kennedys tu nemmeno ti facevi le pippe. Me ne vado. Me ne vado e lo odio.

Capitano Quint 

  1. Kappler
  2. Enver
  3. Khmer rossa
  4. Cinnamon
  5. Tono metallico standard
  6. Tatranky
  7. Robespierre
  8. Piccola Pietroburgo
  9. De Fonseca

 

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Litfiba Live

Litfiba Live 12/5/87 Aprite i Vostri Occhi. Ultima data del tour, a Firenze, al Tenax, dove è stato registrato questo disco. Io sono dell’89 e il Tenax lo conosco solo per quello che è oggi, ovvero una discoteca, che sebbene sia stata recentemente collocata tra i primi 30 locali al mondo (29esimo su 100 secondo la rivista DJMag), resta per me soltanto una discoteca dove a volte ho lasciato 40euro di ingresso grazie alla lista di un pr che giudica all’entrata come sono vestito, per ascoltare la minimale tedesca di qualche dj internazionale. Non voglio assolutamente mettermi a dire era meglio prima, ora fa schifo, eh ma una volta era diverso, mi rassegno al cambiamento e al fatto che non vivrò mai quello spettacolo. Lo stesso discorso vale per i Litfiba, erano meglio prima etc etc è abbastanza banale come argomentazione. Di sicuro sono cambiati, hanno attraversato un periodo non felicissimo musicalmente, ma ora, anche se il disco nuovo non mi ha lasciato così gratificato, penso che la “reunion” non possa che giovare a noi che li abbiamo sempre amati, e soprattutto a loro e alla loro vera identità.

Comunque, il live: l’inizio è scenografico, tutta la sala ed il palco coperti di fumo, dopo poco ti accorgi che non è ghiaccio secco, ma sono le centinaia di sigarette accese, tra cui spicca quella di Ghigo Renzulli. Inizio mistico, effetti sonori per creare l’atmosfera. Appare Piero, con un improbabile giacca rossa, i pantaloni larghissimi che sembrano una gonna, rigorosamente scalzo. E’ lo stesso che incontro in bici che saluto e mi saluta, che incontro alla Coop e saluto e mi saluta, per chi sta a Firenze incontrare Piero è come incontrare alle Cascine Carlo Monni, non lo conosci ma lo saluti con affetto perché ti ha sempre regalato emozioni.

La scaletta appare subito pensata bene, dopo il primo pezzo Come Dio, parte La Preda con il suo ritmo più veloce, e poi arriva Eroi Nel Vento, una delle mie preferite di sempre, in cui si possono apprezzare a pieno le capacità al basso di Gianni Maroccolo, e alle tastiere di Antonio Aiazzi, due componenti fondamentali dei primi Litfiba. Si torna per un momento al rock più duro con Cane, (“Abbiamo tutti bisogno di ca-ca-re…zze!!”)Ghigo ed il batterista Ringo De Palma (scomparso purtroppo pochi anni dopo) si scatenano, prima di gettarsi nelle atmosfere magiche di Apapaia: “Il mio sogno è un mare acido/E dimmi se non è reale/Il giorno traveste di luce ogni cosa vivente, /Ma non toglie la paura dei fantasmi! EH! Rispetta le mie idee!!” Piero disegna con le mani figure e forme condite dalle sue tipiche espressioni che ti fanno dire ma che cazzo sta facendo, ma ne sei completamente affascinato. I successi dei primi storici album Desaparecido e i 17 Re, vengono proposti al pubblico che risponde benissimo a tutte le 15 tracce (il disco invece ne contiene solo 10), passando da Luna, a Re Del Silenzio, a Istanbul, fino arrivare all’ultimo pezzo, Guerra, uno dei primissimi del gruppo, che resta sempre molto suggestivo. La chitarra di Ghigo continua a suonare solitaria, Piero fa qualche verso alla telecamera assorto in un mondo tutto suo, si gira e si inchina al pubblico. Finisce così un live storico, che si unisce a quella centinaia di live che per questioni anagrafiche mi sono perso, infame cane e ladro.

Capitano Quint

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Songs For The Deaf

Queens of the Stone Age, 2003, Interscope

Se vi piace l’hard rock – quello autentico – ma vi siete rotti le palle di ascoltare sempre i soliti classici solo perché oggi non c’è più nessuno che faccia la musica del Diavolo come Dio comanda, non disperate: Songs for the Deaf è la risposta. Che si tratta di roba tosta per gente tosta ce lo dice la copertina – un forcone su sfondo rosso, e basta – oltre alla presenza di Dave Grohl e Josh Homme (già prolifici collaboratori con i Them Crooked Vultures), garanzia di un rock puro. La terza fatica dei Queens of the Stone Age è il meglio del meglio del meglio del rock anni zero, con il risultato che è già diventato un album fondamentale del suo genere (nonostante la giovane età, dieci anni); mi dispiace per voi, ma siete comunque costretti ad ascoltare classici, senza uscita, in un circolo vizioso infinito nel quale alla fine verrete buttati a terra dal riff di questo disco. Di solito ho sempre qualche riserva sulla riuscita dei concept albums, dubbi che in questo caso restano là dove sono, visto che Songs for the Deaf è strutturato benissimo, ogni canzone è legata alla successiva (e viceversa), ogni pezzo ha un senso in quel punto e non in un altro, non ci sono canzoni tanto per fare numero. Già l’idea di base su cui sviluppare la trama del disco mi piace assai: un uomo che sale in macchina, accende la radio e guida nel deserto non si sa dove non si sa come, ascoltando proprio alla radio le canzoni dell’album stesso.

La prima traccia, You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire, a mio parere è  uno degli intro migliori di sempre, oltre ad essere pericolosa per menti poco sane: per certi pezzi ci vuole il porto d’armi, impossibile non pensare a qualcosa di distruttivo mentre la si ascolta. Non si respira mai in quest’ album, ma si prosegue con No one Knows, subito, senza pause, dove si comincia a sentire Dave che torna alle origini gloriose della batteria, rullate a gogo (molto bellllllino anche il video). First it Giveth completa poi questo trittico dopante di ritmo insostenibile, con riff ripetitivo ma velocissimo, quel poco di cervello rimasto si spappola in terra alla fine di questi tre minuti. Se qualcuno, a questo punto, mostrasse delle perplessità sulla sanità mentale del gruppo, non avrebbe tutti i torti; se così non fosse, ci pensano loro stessi a fugare ogni incertezza con A Song for the dead, dove Homme ripete una sola merdosa nota con la chitarra come se fosse catatonico, e Grohl va un po’ a zigzag, smongolando poi in un vogolo di bacchette fino a finirsi i polsi. Non si sa come cazzo faccia, ma lo fa e lo senti, ed è fantastico.

Mentre riprendiamo un po’ di fiato con The Sky Is Fallin’, giusto quello sufficiente per proseguire con Olivieri che sclera in Six Shooter e per renderci conto che i toni dell’album cominciano a farsi più cupi (Hangin’ Tree e Go With The Flow – una delle migliori del disco secondo me), arriviamo a Gonna Leave You e Do It Again sulla falsariga di un tema amoroso come al solito tormentato – All the way, all the way, all the way, there’s no where left we can meet/
I’m into what you do/ but I leave you no where –
tema ripreso poi in Another Love Song; quello che mi stupisce di questo album, non è tanto il fatto che le canzoni siano tutte ottime (anche se sarebbe già di per sé notevole come traguardo), ma che siano pezzi così diversi uno dall’altro – e per musicalità, e per toni, e per ritmo, e per costruzione del testo – così diversi che sembrano presi da album diversi di periodi diversi. E invece no, perché il filo conduttore di tutto si muove sotto ogni traccia, per ricongiungersi con God Is In The Radio (forse la mia preferita), pezzo dai toni un po’ blues, con un riff che si rifà ai classici del rock – compreso l’assolo “di mestiere” con la chitarra: The say the devil is paranoid/Always signin the cover/But god is leakin through the stereo/Between the station to station….I know that god is in the radio/Just repeating a slogan: You come back another day, and do no wrong.

Con l’inquietante e diabolica A Song For The Deaf si chiude l’album migliore fatto fino a ora dai QOTSA, e probabilmente quello che resterà la punta più alta della band. Non glie la voglio tirare, però è difficilissimo che riescano a fare un disco migliore di questo che sia hard-rock, ma che mantenga al tempo stesso una sua propria identità musicale. Ci sarebbero anche Mosquito Song e The Real Song For The Deaf (traccia nascosta), ma se non siete già andati a comprarlo dopo A Song Ford Dead, siete delle fave, e degli stronzi. E io non scrivo più.

Vitellozzo.

 

1. You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire
2. No One Knows
3. First It Giveth
4. Song For The Dead
5. The Sky Is Fallin’
6. Six Shooter
7. Hangin’ Tree
8. Go With The Flow
9. Gonna Leave You
10. Do It Again
11. God Is In The Radio
12. Another Love Song
13. Song For The Deaf
14. Mosquito Song

 

 

 

 

 

 

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Storia di un Impiegato

Fabrizio De André, 1973

Gli album in cui le tracce sono strettamente collegate tra loro, che raccontano una storia come fosse divisa in capitoli, sono rari, ma personalmente li trovo molto interessanti, anche se dipendono chiaramente dalla storia in questione, e soprattutto da chi la racconta. E direi che qui si casca bene. Storia di un Impiegato è il quinto album di Fabrizio De André e, per sua stessa ammissione è un album politico, anche se non doveva esserlo. Per questo la critica del tempo ha duramente stroncato il lavoro, e già questo significa che è un grande album.

La storia si apre con un’ introduzione, prima solo musicale, poi viene descritta una scena, come se un uomo qualunque la stesse guardando da lontano: persone che lottano, come per gioco, ma con rabbia, sono dei giovani. Nella seconda traccia (Canzone del Maggio) la situazione si fa più chiara: sono i moti studenteschi del maggio francese del’68. La canzone è ripresa da una canzone francese di quel periodo, e mostra tutta la forza di volontà dei rivoltosi. L’uomo, l’impiegato, ascolta le loro ragioni e ne rimane turbato, qualcosa gli è entrato in testa. Si accorge che sta trascorrendo passivamente la sua vita, ma sa anche che non può unirsi ai giovani nelle piazze, ed inizia quindi a pensare ad un atto più violento (La Bomba in Testa). Arriva il primo sogno, Al Ballo Mascherato, il ritmo è leggero, la musica allegra. L’uomo si ritrova in mezzo a Cristo, Maria, Dante, suo padre e sua madre, e a tutti quei personaggi che nella sua vita hanno rappresentato il potere e l’autorità. Sogna di far esplodere una bomba in mezzo al ballo, e alla fine dover solo contare i morti. Ma giunge anche il Sogno Numero Due; l’uomo è ora imputato, e un giudice lo mette di fronte ad una terribile verità: “il dito più lungo della tua mano è il medio, quello della mia è l’indice, eppure anche tu hai giudicato.” Per eliminare i simboli del potere l’uomo ha dovuto prima giudicarli, e poi condannarli, esercitando quel potere che lui stesso vuole combattere.

Il sogno continua nel brano successivo, La Canzone del Padre: il giudice gli offre di impersonificarsi in suo padre, rivivendo così una vita triste e illusoria. L’uomo si sveglia, quella vita lui non la vuole, e prende coscienza del suo dovere: Vostro Onore, sei un figlio di troia, mi sveglio ancora e mi sveglio sudato,ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo. I ritmi cambiano, sono decisi, la musica incalza le intenzioni dell’uomo che diventa Il Bombarolo, che con tanto amore si dedica al suo tritolo. L’intento è chiaro, ma la riuscita dell’azione non è affatto scontata: C’è chi lo vide ridere davanti al Parlamento, aspettando l’esplosione che provasse il suo talento, c’è chi lo vide piangere un torrente di vocali, vedendo esplodere un chiosco di giornali. Si intuisce come si sia risolta la cosa, l’incontro con il giudice c’è stato davvero, ed è arrivata anche la condanna al carcere.

All’uomo nella sua cella non resta che scrivere una durissima lettera alla sua amata, che sa tanto di lettera d’addio. E’ Quando Verranno A Chiederti Del Nostro Amore, una delle mie preferite di De André, un’amara rilettura di un rapporto ormai finito. Ma l’uomo ha un sussulto di ribellione, in Nella Mia Ora Di Libertà si rifiuta di condividere questo momento con un secondino, e dopo aver descritto le condizioni carcerarie, (usate da De André per ritrarre la società di cui tutti facciamo parte, in cui non può contare l’azione di un singolo, ma bensì la presa di coscienza collettiva), si passa ad una reazione di gruppo, riprendendo così i toni de La Canzone di Maggio iniziale: Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va, e abbiam deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà, venite adesso alla prigione, state a sentire sulla porta la nostra ultima canzone che vi ripete un’altra volta per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

Quanto cazzo manca De André oggi…

Capitano Quint

  1. Introduzione
  2. Canzone del maggio
  3. La bomba in testa
  4. Al ballo mascherato
  5. Sogno numero due
  6. Canzone del padre
  7. Il bombarolo
  8. Verranno a chiederti del nostro amore
  9. Nella mia ora di libertà

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Skid Row

Skid Row, 1989, Atlantic Records.

Oggi è sempre più difficile trovare in televisione un video di qualche hair-rock band anni ’80. Mi sembra quasi che la storia musicale recente voglia dimenticarsi di quella che secondo me è stata una parentesi felice, oltre che fenomeno culturale e di costume, periodo musicale che ha caratterizzato un epoca in maniera talmente marcata, che quasi ci si vergogna nel dire: il glam-metal spaccava. E alla grande. Ma visto che tendiamo a rivalutare qualsiasi evento sempre con il senno di poi, la gente con il senno di poi dice “eh si, ma la musica anni 80 per un buon 90% era spazzatura” e sempre con il senno di poi, “con quei capelli cotonati, tutti truccati come dei viados, fanno tenerezza” o anche “ma questo non è rock”. Sempre con il famoso senno, voglio rendere un po’ di giustizia a uno di questi gruppi, che – nonostante la breve durata – ha sfornato diversi grandi, grandissimi, pezzi: di merda, quelli che pensano che gli Skid Row non spaccassero i’culo.

Il significato del nome dell’album dice tutto: Skid Row, strada urbana malandata, decadente e in rovina, popolata da poveracci, alcolizzati e drogati. Questa band è uno degli ultimi squilli di tromba della stagione gloriosa e decisamente folle delle suddette hair band anni ’80 (ci metto anche i Motley Crue e i Poison, seppur di qualche gradino sopra, anche a livello di successo commerciale). Piccolo inciso: rispetto al nulla cosmico della scena musicale odierna – assenza totale di “personaggi rock incredibili” e “acconciature irragionevoli” – riesco solo a provare tanta amarezza, quella di non aver visto nemmeno un concerto dal vivo del genere, quei concerti con musiche corali da stadio, e tanta tanta fffffffoga. Skid Row è l’album d’esordio della band, che completa la sua formazione dopo un travaglio durato diversi mesi (non si trovava il frontman): Dave Sabo alla chitarra (“The Snake” per gli amici, soprannome immenso) e Rachel Bolan al basso, Rob Affuso alla batteria, Scotti Hill seconda chitarra e Sebastian Bach alla voce. Tracce grezze e aggressive, belle potenti, arricchite da Bach, che c’ha una voce da seghe, e che vedono la collaborazione e il sostegno di Bon Jovi – amico da sempre di Sabo – il quale ha dato un apporto decisivo per il successo del disco (quando si dice le amicizie ragguardevoli).

Si parte subito forte con Big Guns, dove Bach ci ricorda che i piaceri della rockstar non si fermano alla sola musica. Tema ripreso anche in Can’t Stand The Heartache e Sweet Little Sister, che possono essere prese ad esempio come “canzoni pilota” dello stile Skid Row: testi semplici e “leggeri”, musica negli schemi, schitarrate sudice a nastro, ritornelli orecchiabili, quasi pop, elementi che insieme creano una musica “corale” di massa, una musica che te la fa prendere bene (se siete cultori delle hair band te la fa prendere benissimo). Atmosfera festaiola e attaccabrighe con Piece Of Me – Sleazin’ in the city /Lookin’ for a fight / Got my heels and lookin’ pretty / On a Saturday night, night, night; aria che diventa più tranquilla, più profonda, ma ugualmente carica di tensione e rabbia con 18 And Life (uno dei pezzi migliori del gruppo): he married trouble and had a courtship with a gun/Bang Bang Shoot’em up, The party never ends. You can’t think of dying when the bottle’s your best friend . Tra le altre tracce dell’album, menzione speciale per Here I Am (close you eyes and i’ll be Superman!) e Remenber Me: l’unica ballad del disco in cui Bach canta evidentemente a palle strette. Midnight/Tornado mi foga sempre tanto, penso basti questo. Inutile dire che Skid Row è l’album migliore di Sabo e compagni, che agli inizi dei 90s, inizieranno un lento ma inesorabile declino, si salva solo il secondo album Slave To The Grind (1991), che comunque non raggiungerà mai il suo predecessore. Onore a voi, Youth Gone Wild fino alla fine.

Vitellozzo.

  1. Big Guns 3:36
  2. Sweet Little Sister 3:10
  3. Can’t Stand the Heartache 3:24
  4. Piece of Me 2:48
  5. 18 And Life 3:50
  6. Rattlesnake Shake 3:07
  7. Youth Gone Wild  3:18
  8. Here I Am 3:10
  9. Makin’ a Mess 3:38
  10. I Remember You 5:10
  11. Midnight/Tornado 4:17


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Parklife

Blur, 1994, Food.

La domanda delle domande per un inglese negli anni ’90: Oasis o Blur? Domandona. Io preferisco(vo) quelli di Manchester, forse perché li conosco meglio; ma la bilancia è molto mobile, i pesi possono spostarsi facilmente da un piatto all’altro. Questo perché alla fine è impossibile fare una scelta tra due gruppi che, sebbene appartengano alla stessa corrente musicale – quell’onda britpop che a metà dei ’90 ha vissuto il suo momento d’oro – hanno tirato fuori due stili musicali totalmente differenti, tematiche comprese. I Blur forse sono sempre stati un po’ più inseriti nel contesto socio-politico del periodo, le loro canzoni non erano mai fini a se stesse; magari la band di Colchester poteva sembrare snob o più da “universitari”, meno accessibili rispetto agli Oasis (per quanto la musica popular possa essere inaccessibile), ma alla fine le etichette non contano un cazzo quando ci si trova davanti a un ottimo album, sicuramente uno dei migliori nel suo genere.

Questo anche grazie a tutto quello che si respira nel Regno Unito, dove le band che nascono non sono mai banali, mai ripetitive, mai omologate; è proprio una concezione della musica intesa come sperimentazione diversa dalla nostra, lì non suonano per sfondare, suonano per suonare. Il britpop è un ceppo che si rigenera continuamente, basta pensare alla nascita dei Coldplay, che hanno preso tutto quello che di buono aveva da offrire la scena musicale britannica di fine anni ’90 per sviluppare a qualcosa di nuovo, o ancora i Radiohead. Comunque, passiamo a Parklife.

La copertina è favolosa: due cagnacci incazzati che corrono all’ippodromo. Di solito le copertine non sono mai un granché (tipo quelle degli Oasis che sanno di poco), invece i Blur (o chi per loro) hanno sempre pensato a fare qualcosa di diverso. Sedici tracce sedici. Come tutti gli album, ci sono giusto quelle due – tre hit da classifica mandate in radio fino alla nausea, Girls & Boys e Parklife, che sì, son decisamente orecchiabili, musicali e ironiche, ma non sono le migliori dell’album, secondo me. Queste due fanno solo da apripista a una serie di tracce, dove si palesa l’eclettismo del gruppo, supportato da un continuo richiamo alle musicalità dei Beatles e un po’ di 80’s, che non fa mai male: in Badhead Damon Albarn canta dolcemente, una voce più rilassata, più tranquilla rispetto a Girls & Boys, in Clover over Dover Coxon si ricorda di essere un chitarrista dalla delicatezza inusuale, come in This Is a Low (una delle mie preferite) dove ci regala un assolo sporco anticonvenzionale. Mi piace tanto anche End Of a Century, canzone quasi scherzosa, una visione disincantata della fine del millennio, in fondo End of the century it’s nothing special. Con Lot 105 sembra di ascoltare i Meganoidi, pezzo molto raprap ska. L’unica ballad del disco è To The End, gran bella canzone, dal gusto quasi retrò. In Far Out c’è spazio anche per il bassista Alex James, che prende il posto di Albarn alla voce, 1:37 di parole ad minchiam, ogni tanto ci vòle anche questo.

Vitellozzo.

1. Girls & Boys
2. Tracy Jacks
3. End of a Century
4. Parklife
5. Bank Holiday
6. Badhead
7. The Debt Collector
8. Far Out
9. To the End
10. London Loves
11. Trouble in the Message Centre
12. Clover Over Dover
13. Magic America
14. Jubilee
15. This Is a Low
16. Lot 105

 

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Anima e Ghiaccio

Colle Der Fomento, 2007

Cappellini di squadre sportive americane (tutti grandi fan del baseball?), improbabili catene d’oro, gioielli e orologi ben in vista (senza scordarsi di sopracciglia depilate e make-up sempre in ordine), e canzoni che girano intorno al “io spacco, tu no, io sono qui con i miei fra, è meglio che resti dove sei”, sono per me quanto di più odioso possa offrire la scena italiana, alla ricerca di uno stile americano del quale afferma sempre di non voler essere una copia. Il problema non è l’America, anzi. L’hip-hop americano è una lezione, non un modello da copiare, e come tutte le lezioni c’è chi le capisce, e chi no. Tra i primi ci sono i Colle der Fomento che, dopo anni da Odio Pieno (1996) e Scienza Doppia H (1999), si autoproducono questo album: Anima e Ghiaccio. Danno e Masito al microfono, dj Baro alle basi (sostituendo Ice One) realizzano questo prodotto distinguendosi da tutti gli altri per intensità, temi trattati, e verità dei testi. A far capire subito i toni ci pensa l’intro: “questo nulla non ci annullerà in questa nuova era, Colle der Fomento brucia ogni bandiera per necessità” (concludendosi poi con una citazione dall’Accattone di Pasolini). La questione di uno Stato che non rappresenta il suo popolo,  attraversa molte tracce del disco, attingendo dai Public Enemy,  e invita la gente ad una resistenza contro le falsità di un sistema politico falso e corrotto (Sorridi, La Fenice). Ci sono poi tracce in cui le basi sono più ritmate, spingendo forte i tempi dell’hip-hop (Solo Amore, Benzina Sul Fuoco, Accannace) su cui si sviluppano le strofe di Masito e del maestro jedi Danno. Veramente due grandi autori. Nel disco ci sono tante partecipazioni di importanti esponenti della scena: Kaos, Turi, Mr.Phil, Squarta, Il Turco, Supremo 73. E proprio quest’ultimo (storico rapper della capitale, GDB Gente De Borgata) mette la sua firma su una strofa di uno dei pezzi più belli RM Confidential: gli impicci fanno parte del made in italy /più che arte una risposta a poteri ridicoli e inutili / la vita cambia pe tutti, è una questione de attimi / la meglio cosa che me dai, ce lo sai, so i battiti.

Il mio brano preferito tra tutte le 18 tracce, è Pioggia Sempre. La parte del Danno è un esempio per tutti i rapper che cercano sempre la rima ad effetto per chiudere una frase, scordandosi poi di trovare continuità nella strofa. Penso che il Danno sia il miglior autore di testi rap in Italia proprio perché sia negli album, sia nei freestyle (di un altro pianeta), riesce a portare a termine discorsi interi, non frasi separate, incastrando parole e rime con grande efficacia. Descrizioni perfette della condizione quotidiana: “Fanculo gli eroi, gli dei e i loro servi / è un mondo che fa a gara a riportarmi giù dai vermi / qua mi gioco i nervi ma ne va di tutta la mia integrità, e poi basta con sta scusa di essere pazienti”…”E il conto non va mai in pari tra banchieri e palazzinari / hai pagato per il sole e t’hanno dato solo temporali / è una sensazione a pelle di presa per il culo perenne / eh già, è pioggia sempre.”

Capitano Quint

  1. La forza… (intro)
  2. Ghetto chic
  3. Pioggia sempre
  4. Benzina sul fuoco
  5. Più forte delle bombe
  6. Capo di me stesso
  7. Solo amore
  8. Accannace
  9. La fenice feat. Kaos
  10. Questi giorni
  11. Punti di domanda feat. Il Turco
  12. This Joint Is For U (skit)
  13. Fratello dove sei?
  14. Sorridi
  15. Oggi sono chiunque
  16. RM Confidential feat. Supremo 73
  17. Più forte delle bombe (rmx)
  18. Anima e ghiaccio (outro)

 

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La Grande Famiglia

Modena City Ramblers, 1996, BlackOut Polygram.

Siccome mi tocca, per spirito di appartenenza, parlare anche di qualche album italiano, tanto vale parlare dei Modena, uno dei pochi gruppi nostrani che si salvano dal nulla degli ultimi trent’anni. La copertina dell’album dice tutto: foto in bianco e nero di duemilasettecento persone tutte in posa stile famiglia dell’Ottocento. E’ chiaro che non è un gruppo rock, per due motivi: 1) il rock in Italia – quello vero –  non esiste. 2) qui si suona con banjo, armonica, tromba, sassofono, violino, organo, fisarmonica, scottish pipe (cazzo sarà la scottish pipe..) e via discorrendo. Folk music fatta senza impegno, solo con la voglia di divertirsi e far divertire, senza obblighi discografici, senza stress, solo musica sul campo, raccolta, piccoli locali, piccoli concerti, piccoli grandi pezzi. La Grande Famiglia è la seconda fatica dei Modena dopo Riportando Tutto a Casa (1994), già di per sé ottimo album d’esordio (In un giorno di pioggia una delle mie preferite). Sedici tracce cariche di energia, cariche d’Irlanda. L’ispirazione alla musica irlandese è evidente (d’altronde loro sono Amanti d’Irlanda). Non starò qui a elencare ogni singola traccia, se vi piace l’album compratevelo e ascoltatevele da soli (anche perché son sedici, mica due..).

Giusto tre o quattro tanto per gradire, sennò qualcuno potrebbe pensare che mi faccia fatica scrivere. La prima traccia, Clan Banlieue (collaborazione con Paolo Rossi), parla della voglia di evadere da una realtà che ci opprime, per scoprire posti nuovi, viaggiare, cazzeggiare con un furgone arrugginito levandosi di culo dai sobborghi soffocati dalla noia.  Bella anche Canzone della fine del mondo, quella che preferisco, la dimensione del sogno, della possibilità di qualcosa di meglio, della disillusione con la realtà dei fatti, e i giorni passavano e il tempo nel sogno volava (…) ma il vento dell’ovest chiamava ed il cielo d’Irlanda spariva, mi svegliai in una stanza deserta, ubriaco, mentre il sogno finiva. Non manca ovviamente una denuncia al sistema dell’Italia-Paese, fatto di ruffiani, arraffini, evasori (tema “vagamente” attuale) con Giro di Vite, come anche richiami alla terra emiliana (La Mondina) e al dialetto modenese (Al Dievel). Trova spazio anche una cover ben riuscita della Locomotiva gucciniana (cover veramente ben riuscita). Bellissima, infine, anche La Strada (dedicata ad Alberto Morselli, voce del primo album), perché gli addii agli amici veri son sempre da strappa mutande.  A mio modestissimo parere questo resta il miglior album del gruppo; mi sembra – infatti – che i Modena si siano persi lentamente nei successivi lavori, con canzoni troppo pervase di luoghi comuni e una retorica  pesante, che sembra quasi schiacciare il dinamismo e la carica dei primi pezzi.

 Vitellozzo

  1. Clan Banlieue – 3:55
  2. Grande famiglia – 3:01
  3. Canzone dalla fine del mondo – 3:50
  4. Santa Maria del Pallone – 3:21
  5. L’aquilone dei Balcani – 1:41
  6. Le lucertole del folk – 2:14
  7. Giro di vite – 2:01
  8. La mondina/The lonesome boatman – 2:01
  9. Al Dievel/La marcia del Diavolo – 3:27
  10. Il fabbricante dei sogni – 3:19
  11. La banda del sogno interrotto – 2:58
  12. La locomotiva – 7:12
  13. L’unica superstite – 3:52
  14. La fola dal Magalas – 3:37
  15. La strada – 4:14
  16. La mia gente – 2:54

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Them Crooked Vultures

Them Crooked Vultures, 2009

Non sono mai stato convinto dalle superband, quei gruppi formati da vari artisti famosi, che si staccano per un momento dai loro gruppi originari per dar vita a un progetto, che spesso lascia il tempo che trova, ovvero una grande pubblicità, un buon singolo, e un album che si perde nel tempo. Spesso, secondo me, il problema è il numero dei componenti, come la Rockestra messa insieme da Paul McCartney (o meglio, dal suo sosia) che riuniva Bonham, Townshend, Gilmour, Gary Brooker, e tanti altri, tutti di primissimo livello, che messi insieme in 3 minuti di singolo, mi sembrano un po’ schiacciati l’uno dalla grandezza dell’altro. Capita invece a volte che l’assortimento del gruppo sia riuscito, grazie alla volontà di due musicisti di suonare con un gigante del rock, e soprattutto dalla voglia di quest’ultimo di divertirsi ancora.

Them Crooked Vultures (quegli storti avvoltoi?) sono Josh Homme, voce e chitarra dei Queens of the Stone Age, Dave Grohl, dei Foo Fighters, che torna alla batteria dove aveva iniziato con i Nirvana, e Mr. JPJ John Paul Jones, ragazzo del ’46 che ha fatto la storia del rock suonando il basso nei Led fuckin Zeppelin. L’album omonimo si annuncia come una chicca fin dalla grafica, e se ci si aspetta una sola cosa, la soddisfazione è immensa: abbiamo l’hard rock anche nel 2009. E il bello è che non c’è da chiedersi quale dei tre componenti influenzi di più lo stile della band, perché tutti hanno solo voglia di suonare qualcosa di nuovo. Sarebbe stato troppo scontato ricercare le sonorità degli Zep, e di quel rock anni ’70, più difficile invece è fare qualcosa di diverso, di funzionale, e mantenere lo stesso livello per 13 tracce. Si nota infatti come non ci siano canzoni che si distinguono maggiormente dalle altre, non ci sono singoli da radio, canzoni per fare numero, o gemme nascoste: tutti i brani hanno la stessa carica e la stessa capacità di appagare l’ascoltatore.

Forse sì, lo stile più riconoscibile è quello dei Queens of the Stone Age, anche perché Homme è l’autore dei testi, e le parti di chitarra sono più o meno quelle, ma Dave Grohl picchia forte sulla batteria marcando pesantemente i toni, Jones esegue delle linee di basso da maestro, e quando va tutto bene in questo modo c’è anche poco da dire. Le mie preferite sono Elephants, Reptiles, e Warsaw Or The First Breath You Take After You Give Up, ma proprio per citarne tre forzatamente. Si spera in un secondo album, che dovrebbe essere confermato, e intanto da fan affido ai Foo Fighters il compito di salvare il genere.

Capitano Quint

  1. No One Loves Me & Neither Do I
  2. Mind Eraser, No Chaser
  3. New Fang
  4. Dead End Friends
  5. Elephants
  6. Scumbag Blues
  7. Bandoliers
  8. Reptiles
  9. Interlude with Ludes
  10. Warsaw or the First Breath You Take After You Give Up
  11. Caligulove
  12. Gunman
  13. Spinning in Daffodils

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