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Giovanni Lindo Ferretti – live @Flog Firenze

copertinaCronaca di un Live. Firenze, Flog 8maggio2013. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento. Avevo una sola immagine in testa di Giovanni Lindo Ferretti: lui completamente rasato. Sempre. L’ho visto con la cresta, con la scritta CCCP su un lato, ma rasato era l’unica certezza che avevo. Certezza spazzata via appena salito sul palco, con i capelli fluenti, rasati sopra la fronte e senza basette. Le mani in tasca, un’improbabile cravatta. 60anni, un uomo serio e serioso, con del punk nascosto da qualche parte.
Applausi scroscianti.

“Gentilissimo pubblico…ricordo, circa 25,26 anni fa, ero appeso qua ad urlare SPARA JURIJ! Non si sa mai, attenzione…”
Sapendo che non ci sarebbe stata la minima possibilità di vederlo appeso ad urlare, temevo invece un concerto all’estremo opposto, temevo letture, litanie, preghiere, secondo le notizie degli ultimi anni, che parlavano di un uomo molto religioso, in pace con se stesso, ovviamente lontano dai CCCP, e anche dai CSI.

E invece piacevolissima sorpresa. Lo trovo sempre FEDELE ALLA LINEA, con due musicisti, Ezio Bonicelli e Luca Rossi (ex Ustmamò), che danno tutto sul palco. In due per due chitarre, un basso, un violino, e un mac, eccezionali. Lui al centro, occhi chiusi, bocca attaccata al microfono, voce bassissima, tenebrosa, che poi si alza (magari non benissimo) per scandire le sue classiche parole, come TRRRREMA per un non so TRRREMA. A volte si stacca e si appoggia alla parete in fondo al palco. Mi viene da ridere per i commenti su internet di chi diceva che è la macchietta di se stesso, costretto per soldi a fare sempre le vecchie canzoni. Non me ne frega un cazzo. Me l’ha fatte tutte, tutte magnifiche, tutte dando il massimo

Ripescando il punk dei CCCP (la gente pogava eh), zittendo tutti con le atmosfere dei CSI, facendo cantare tutti con le più famose. Il bis che comprendeva Emilia Paranoica e Unità di Produzione ha finito la gola a tutta la Flog. E poi se l’era chiamata dall’inizio, non poteva non farla: SPARA, SPARA, SPAAARA!! Senza appendersi da nessuna parte, sciogliendosi alla fine in una specie di balletto.
Grande live, grande artista. Conforme a chi, conforme a cosa.

Capitano Quint

Scaletta (dovrebbe essere vera):

Canto Eroico
Tu Menti
Amandoti
Tomorrow
Mi Ami
Oh! Battagliero
And The Radio Plays
Radio Kabul
Polvere
Occidente
Cupe Vampe
Annarella
Del Mondo
Barbaro
Per Me Lo So
Irata
Ombra Brada
Emilia Paranoica
Unità di Produzione
Spara Jurij!

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Le luci della Centrale Elettrica

Il babbo è Vasco Brondi, cantautore ferrarese che debutta nel 2007, con questo nome, Le luci della centrale elettrica appunto, che sono poi le luci dell’ex Montedison a Ferrara. Cito direttamente da Wiki: “Più che la centrale elettrica in sé sono queste luci. Forse mi piaceva come immagine, quello che era […] Quindi è questa entità Montedison che mi piaceva evocare, e soprattutto le luci della Montedison in quel fumo che esce, questa attrazione serale che spesso è l’unica che c’è in città”.

Una demo autoprodotta del 2007 – che a detta di (quasi) tutti è il lavoro più riuscito – e due album, Canzoni da spiaggia deturpata (2008) e Per ora noi la chiameremo felicità (2010), sono quanto fino ad oggi ci ha regalato questo gruppo. Più che canzoni nel senso classico del termine Brondi si “limita” a cantare a modo suo, i suoi pensieri messi su carta; in realtà lo stile è un po’ obbligato, visto che per sua stessa ammissione non è un buon cantante. Spesso c’è solo una chitarra, qualche accordo e giù parole, cambia la tonalità, cambia l’intonazione, cambia l’umore del cantante, il quale dipinge molto bene questo periodo storico, una generazione allo sbando, annegata nei ricordi di un mondo che si è perso, un esercito di precari e disoccupati (L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici). Secondo me le canzoni, in generale senza fare distinzioni tra gli album, sono molto belle. Se vi piace il genere, vi consiglio di buttarci un o(re)cchio. Si pesca un po’ dappertutto, dai CCCP che non ci sono più (La gigantesca scritta Coop), agli Offlaga senza elettronica, ai Marta sui Tubi. Non si fa fatica neanche a riconoscere lo stile di Rino Gaetano (Nei garage a Milano nord è una delle mie preferite), ma c’è anche qualcosina di De Andrè e un po’ del migliore cantautorato di casa nostra.

Finalmente c’è qualcuno che racconta cosa sta succedendo, che sta andando tutto a puttane, che si sta sfasciando tutto, e parlami delle tue galere, delle nostre metafore, delle case inagibili, dei nostri voli rasoterra e poi la crisi finanziaria e ronde di merda […] chiamale se vuoi esplosioni dei mercati (Anidride Carbonica). Un po’ di realtà senza filtri, senza musichine sega, solo chitarra e voce (a volte urla, meglio). Una delle parentesi migliori di questi ’00. Visto il panorama attuale della musica italiana, satura (almeno per me) di poveracci dei talent con la data di scadenza scritta sopra, o di gruppettini del cazzo finti rock, o peggio indie, Le luci della centrale elettrica si salvano dall’oblio, segno che la musica indipendente può ancora dire la sua (e forse è rimasta l’unica), e proteggimi dai lacrimogeni e dalle canzoni inutili (Lacrimogeni), ecco proteggici anche a noi Vasco dai.

 Vitellozzo.

 

 

 

 

 

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Marta sui Tubi – Sushi e Coca

sushicocaChe spaccano sul serio ormai dovrebbe essere cosa nota a tutti. Che sono una delle migliori band italiane del momento, anche. Quindi mi levo subito l’argomento Sanremo, al quale il gruppo parteciperà quest’anno: il problema di Sanremo non è Sanremo, sono le canzoni che i cantanti portano a Sanremo. Finché ci sarà solo “sei bella come il sole, amore amore amore” cantata da Giggi, o da qualche profugo di Amici, sarà sempre un Sanremo di merda. Se poi i Marta Sui Tubi si uniformeranno a questo copione, allora saranno coglioni, però almeno diamogli fiducia, perché lavori come questo album, sono un piacere.

Compassione per tutti quelli che ascoltano i Negramaro, però oh dovete ascoltare questa roba, non c’è proprio paragone, come testi, come musica, come tutto. Innanzitutto complimenti per il nome, non siamo ai livelli de I Pezzi Di Merda, però il nosense va sempre premiato. Ma poi ascoltando La Spesa, come si fa a non accorgersi della bellezza del testo: “Un’altra sera a casa a masticare noia e surgelati, la tv vomitava acqua e colori, la luce dei pensieri spenta. Programmerò il mio amore artificialmente, scriverò un saggio su come perdere tempo senza sprecare nemmeno un minuto

So’ avanti. Punto. Canzoni come L’Unica Cosa, Cinestetica, sono da ascoltare di continuo. Alcune sono più serie, altre più profonde, secondo me si distinguono altre due o tre: Dio come sta? (“evidentemente assente”), Sushi e Coca (“Milano sushi e coca, Milano paga e scopa”), a anche Dominique Canzone di Gelosia (“e ti vedo ballare sporca puttana, o almeno così ora ti vedo”) con il cantato finale stile hardcore metal, che mi fa sempre ridere. Al di fuori di questo album volevo citare anche la canzone Cromatica, in collaborazione con Lucio Dalla, che è davvero ma davvero bella, testo incredibile.

  1. Arco e Sandali
  2. Cinestetica
  3. La Spesa
  4. Non lo Sanno
  5. Dio Come Sta?
  6. Lauto Ritratto
  7. L’Unica Cosa
  8. Dominique (canzone di gelosia)
  9. L’Aria Intorno
  10. Licantropo
  11. Sushi & Coca
  12. Pensieri a Sonagli

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For Emma, Forever Ago

Bon Iver, 2007.

I ringraziamenti per l’articolo vanno all’amico Andrea, che tra qualche cacata indie e ridicoli gruppi finti punk-rock,  ogni tanto mi passa anche roba di qualità, come questo disco. E’ un album speciale, senza una band.  Quando dico che non c’è una band intendo proprio che c’è solo una persona che ha scritto, suonato, cantato e prodotto le canzoni: Justin Vernon.

Già di per sé, la storia di come il ragazzo Justin Vernon è arrivato a chiamarsi Bon Iver e a pubblicare “For Emma, forever ago” è fantastica, e merita di essere raccontata. Fino al 2006 era sconosciuto, provava con tutte le sue forze a sfondare, ma non ce la faceva: vari progetti musicali non avevano fatto altro che far scorrere la lancetta del tempo, che ormai puntava sui 25 anni. Il tempo limite per fare il grande salto stava per finire. A questo si aggiunge la mazzata, si lascia con la sua ragazza. Allora, Justin fa quello che avrei fatto anche io, e cioè manda tutto a fanculo e se ne torna a casa nel Wisconsin. L’inverno dal babbo gli fa bene (Bon Iver è la storpiatura americana del francese bon hiver,  buon inverno) perché lo scazzo piano piano finisce e ricomincia a fare musica, da solo. Ha con sé solo l’essenziale, una batteria e qualche chitarra, ma gli bastano. L’atmosfera tranquilla e raccolta di casa contribuisce in maniera determinante nel tracciare l’aspetto di fondo dell’album, molto intimistico, silenzioso, e semplice. La pochezza degli strumenti musicali, oltre che le sbavature sonore in qualche punto dell’album, rendono tutto molto più vero, autentico cantautorato fatto in casa. Ogni brano entra il punta di piedi, l’attacco è una chitarra che si sente appena, melodia sullo stesso livello per tutto il pezzo, a volte accompagnata da  percussioni in cui le bacchette non sfiorano mai i piatti (Flume).

La voce è l’altro aspetto caratteristico dell’album: Vernon sembra giocarci in ogni traccia, a volte cantando in falsetto, senza mai esagerare, centellinando le note alte (Lump Sum), altre sembra invece far uscire le parole con più naturalezza, in brani intensi, anche nella voce, come in Skinny Love, rivelando tutta la natura folk del disco. Team è invece, un momento solo strumentale, in cui la batteria la fa da padrone – e dove, per la prima volta nell’album – sentiamo un po’ di piatti. Assolutamente da citare anche The Wolves (Act I And II), pezzo quasi gospel, dove nel finale gli strumenti crescono di intensità, sorretti da un falsetto a voci sovrapposte che completa forse il miglior pezzo dell’album, insieme a Lump Sum.

Quest’album è per tutti quelli che ancora non sanno cosa fare della propria vita, che si sentono un po’ smarriti e confusi. Per quelli come noi c’è ancora una speranza, basta fare come Justin Vernon: andare nel Wisconsin e comprarsi una capanna. Chiudersi dentro e fare musica; o anche solo ascoltare For Emma, forever ago.

 Vitellozzo.

  1. Flume
  2. Lump Sum
  3. Skinny Love
  4. The Wolves (Act I And II)
  5. Blindsided
  6. Creature Fear
  7. Team
  8. For Emma
  9. Re: Stacks

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Socialismo Tascabile (Prove tecniche di trasmissione)

Offlaga Disco Pax, 2005.

Scoperti casualmente l’anno scorso. Me ne sono innamorato, escono questo anno con il loro terzo album, dove ripropongono la stessa formula di questo primo lavoro, Socialismo Tascabile: musica elettronica, e testi recitati. Oh non aspettavo altro, che qualcuno cioè mi dimostrasse che l’elettronica può convivere benissimo con un testo parlato, e che elettronica. Si sentono perfettamente i Kraftwerk, le basi sono stupende, creano un atmosfera che contorna perfettamente le piccole storie narrate.

L’argomento principale sembra essere il lontano ricordo di una situazione sociale e politica che purtroppo non vivrò mai. Sono storie nostalgiche di un tempo che appunto non c’è più, di un “quartiere dove il PC prendeva il 74% e la DC il 6%”, dove regnava “una scritta degli ultras della Reggiana: Grazie Regan, bombardaci Parma”, storie fatte di piccoli ricordi, dell’odio verso un professore (Kappler), di un viaggio a Praga dove in discoteca con grande sorpresa e tristezza parte Felicità di Albano e Romina. Tutte raccontate con una semplicità e raffinatezza che ti fanno sentire veramente partecipe e afflitto per non aver vissuto quel periodo, gli anni 70/80.  E allora ecco che il professore decide di farti fare il compito di recupero, a te che hai saltato tutti i precedenti, e dopo aver preso 8, reclami la stessa media perché hai la faccia come il culo, ecco che c’è da risolvere il mistero della sparizione della gomma al gusto Cinnamon, che si esalta la comodità della ciabatta Defonseca, ecco che si arriva ad Enver, canzone di un amore finito, bellissima anche solo per l’immagine del ritornello: “Hai lasciato piazze piene, urne vuote, tremori gentili, tracce sottili, tracce profonde sugli zerbini dei miei pianerottoli”. Un po’ di Federico Fiumani, un po’ di Massimo Volume, un po’ di CCCP in questi testi, scritti molto bene, si vede che le parole sono scelte con attenzione in modo che si adattino con perfezione alla base. E poi c’è la descrizione di questi paesini dell’Emilia, con la loro toponomastica, e i loro miracoli (“Ricordate la madonna che piangeva sangue a Civitavecchia?… Ebbene, in un impeto di ribellione per tanta imbecillità, in quei giorni, anche il busto di Lenin cominciò a lacrimare). Altra chicca è Tono Metallico Standard, di cui basta citare questa strofa che si svolge in un negozio di dischi: Sento una bella canzone e gli chiedo chi è che canta. Con la solita faccia mi risponde col suo tono metallico standard e dice rassegnato “E’ Mark Lanegan” Poi un lampo di vita, si ridesta dai suoi pensieri troppo alti e scollegati e mi comunica deciso: “Non credo che tu lo conosca, era il cantante degli Screaming Trees”. Ora capisco. Il mio aspetto ordinario gli trasmette ascolti deplorevoli. Ma io lo so chi è Mark Lanegan, arrogante bottegaio  indegno della roba che vendi qui dentro, alternativo dei miei coglioni che quando io ascoltavo i Dead Kennedys tu nemmeno ti facevi le pippe. Me ne vado. Me ne vado e lo odio.

Capitano Quint 

  1. Kappler
  2. Enver
  3. Khmer rossa
  4. Cinnamon
  5. Tono metallico standard
  6. Tatranky
  7. Robespierre
  8. Piccola Pietroburgo
  9. De Fonseca

 

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Songs For The Deaf

Queens of the Stone Age, 2003, Interscope

Se vi piace l’hard rock – quello autentico – ma vi siete rotti le palle di ascoltare sempre i soliti classici solo perché oggi non c’è più nessuno che faccia la musica del Diavolo come Dio comanda, non disperate: Songs for the Deaf è la risposta. Che si tratta di roba tosta per gente tosta ce lo dice la copertina – un forcone su sfondo rosso, e basta – oltre alla presenza di Dave Grohl e Josh Homme (già prolifici collaboratori con i Them Crooked Vultures), garanzia di un rock puro. La terza fatica dei Queens of the Stone Age è il meglio del meglio del meglio del rock anni zero, con il risultato che è già diventato un album fondamentale del suo genere (nonostante la giovane età, dieci anni); mi dispiace per voi, ma siete comunque costretti ad ascoltare classici, senza uscita, in un circolo vizioso infinito nel quale alla fine verrete buttati a terra dal riff di questo disco. Di solito ho sempre qualche riserva sulla riuscita dei concept albums, dubbi che in questo caso restano là dove sono, visto che Songs for the Deaf è strutturato benissimo, ogni canzone è legata alla successiva (e viceversa), ogni pezzo ha un senso in quel punto e non in un altro, non ci sono canzoni tanto per fare numero. Già l’idea di base su cui sviluppare la trama del disco mi piace assai: un uomo che sale in macchina, accende la radio e guida nel deserto non si sa dove non si sa come, ascoltando proprio alla radio le canzoni dell’album stesso.

La prima traccia, You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire, a mio parere è  uno degli intro migliori di sempre, oltre ad essere pericolosa per menti poco sane: per certi pezzi ci vuole il porto d’armi, impossibile non pensare a qualcosa di distruttivo mentre la si ascolta. Non si respira mai in quest’ album, ma si prosegue con No one Knows, subito, senza pause, dove si comincia a sentire Dave che torna alle origini gloriose della batteria, rullate a gogo (molto bellllllino anche il video). First it Giveth completa poi questo trittico dopante di ritmo insostenibile, con riff ripetitivo ma velocissimo, quel poco di cervello rimasto si spappola in terra alla fine di questi tre minuti. Se qualcuno, a questo punto, mostrasse delle perplessità sulla sanità mentale del gruppo, non avrebbe tutti i torti; se così non fosse, ci pensano loro stessi a fugare ogni incertezza con A Song for the dead, dove Homme ripete una sola merdosa nota con la chitarra come se fosse catatonico, e Grohl va un po’ a zigzag, smongolando poi in un vogolo di bacchette fino a finirsi i polsi. Non si sa come cazzo faccia, ma lo fa e lo senti, ed è fantastico.

Mentre riprendiamo un po’ di fiato con The Sky Is Fallin’, giusto quello sufficiente per proseguire con Olivieri che sclera in Six Shooter e per renderci conto che i toni dell’album cominciano a farsi più cupi (Hangin’ Tree e Go With The Flow – una delle migliori del disco secondo me), arriviamo a Gonna Leave You e Do It Again sulla falsariga di un tema amoroso come al solito tormentato – All the way, all the way, all the way, there’s no where left we can meet/
I’m into what you do/ but I leave you no where –
tema ripreso poi in Another Love Song; quello che mi stupisce di questo album, non è tanto il fatto che le canzoni siano tutte ottime (anche se sarebbe già di per sé notevole come traguardo), ma che siano pezzi così diversi uno dall’altro – e per musicalità, e per toni, e per ritmo, e per costruzione del testo – così diversi che sembrano presi da album diversi di periodi diversi. E invece no, perché il filo conduttore di tutto si muove sotto ogni traccia, per ricongiungersi con God Is In The Radio (forse la mia preferita), pezzo dai toni un po’ blues, con un riff che si rifà ai classici del rock – compreso l’assolo “di mestiere” con la chitarra: The say the devil is paranoid/Always signin the cover/But god is leakin through the stereo/Between the station to station….I know that god is in the radio/Just repeating a slogan: You come back another day, and do no wrong.

Con l’inquietante e diabolica A Song For The Deaf si chiude l’album migliore fatto fino a ora dai QOTSA, e probabilmente quello che resterà la punta più alta della band. Non glie la voglio tirare, però è difficilissimo che riescano a fare un disco migliore di questo che sia hard-rock, ma che mantenga al tempo stesso una sua propria identità musicale. Ci sarebbero anche Mosquito Song e The Real Song For The Deaf (traccia nascosta), ma se non siete già andati a comprarlo dopo A Song Ford Dead, siete delle fave, e degli stronzi. E io non scrivo più.

Vitellozzo.

 

1. You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire
2. No One Knows
3. First It Giveth
4. Song For The Dead
5. The Sky Is Fallin’
6. Six Shooter
7. Hangin’ Tree
8. Go With The Flow
9. Gonna Leave You
10. Do It Again
11. God Is In The Radio
12. Another Love Song
13. Song For The Deaf
14. Mosquito Song

 

 

 

 

 

 

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Anima e Ghiaccio

Colle Der Fomento, 2007

Cappellini di squadre sportive americane (tutti grandi fan del baseball?), improbabili catene d’oro, gioielli e orologi ben in vista (senza scordarsi di sopracciglia depilate e make-up sempre in ordine), e canzoni che girano intorno al “io spacco, tu no, io sono qui con i miei fra, è meglio che resti dove sei”, sono per me quanto di più odioso possa offrire la scena italiana, alla ricerca di uno stile americano del quale afferma sempre di non voler essere una copia. Il problema non è l’America, anzi. L’hip-hop americano è una lezione, non un modello da copiare, e come tutte le lezioni c’è chi le capisce, e chi no. Tra i primi ci sono i Colle der Fomento che, dopo anni da Odio Pieno (1996) e Scienza Doppia H (1999), si autoproducono questo album: Anima e Ghiaccio. Danno e Masito al microfono, dj Baro alle basi (sostituendo Ice One) realizzano questo prodotto distinguendosi da tutti gli altri per intensità, temi trattati, e verità dei testi. A far capire subito i toni ci pensa l’intro: “questo nulla non ci annullerà in questa nuova era, Colle der Fomento brucia ogni bandiera per necessità” (concludendosi poi con una citazione dall’Accattone di Pasolini). La questione di uno Stato che non rappresenta il suo popolo,  attraversa molte tracce del disco, attingendo dai Public Enemy,  e invita la gente ad una resistenza contro le falsità di un sistema politico falso e corrotto (Sorridi, La Fenice). Ci sono poi tracce in cui le basi sono più ritmate, spingendo forte i tempi dell’hip-hop (Solo Amore, Benzina Sul Fuoco, Accannace) su cui si sviluppano le strofe di Masito e del maestro jedi Danno. Veramente due grandi autori. Nel disco ci sono tante partecipazioni di importanti esponenti della scena: Kaos, Turi, Mr.Phil, Squarta, Il Turco, Supremo 73. E proprio quest’ultimo (storico rapper della capitale, GDB Gente De Borgata) mette la sua firma su una strofa di uno dei pezzi più belli RM Confidential: gli impicci fanno parte del made in italy /più che arte una risposta a poteri ridicoli e inutili / la vita cambia pe tutti, è una questione de attimi / la meglio cosa che me dai, ce lo sai, so i battiti.

Il mio brano preferito tra tutte le 18 tracce, è Pioggia Sempre. La parte del Danno è un esempio per tutti i rapper che cercano sempre la rima ad effetto per chiudere una frase, scordandosi poi di trovare continuità nella strofa. Penso che il Danno sia il miglior autore di testi rap in Italia proprio perché sia negli album, sia nei freestyle (di un altro pianeta), riesce a portare a termine discorsi interi, non frasi separate, incastrando parole e rime con grande efficacia. Descrizioni perfette della condizione quotidiana: “Fanculo gli eroi, gli dei e i loro servi / è un mondo che fa a gara a riportarmi giù dai vermi / qua mi gioco i nervi ma ne va di tutta la mia integrità, e poi basta con sta scusa di essere pazienti”…”E il conto non va mai in pari tra banchieri e palazzinari / hai pagato per il sole e t’hanno dato solo temporali / è una sensazione a pelle di presa per il culo perenne / eh già, è pioggia sempre.”

Capitano Quint

  1. La forza… (intro)
  2. Ghetto chic
  3. Pioggia sempre
  4. Benzina sul fuoco
  5. Più forte delle bombe
  6. Capo di me stesso
  7. Solo amore
  8. Accannace
  9. La fenice feat. Kaos
  10. Questi giorni
  11. Punti di domanda feat. Il Turco
  12. This Joint Is For U (skit)
  13. Fratello dove sei?
  14. Sorridi
  15. Oggi sono chiunque
  16. RM Confidential feat. Supremo 73
  17. Più forte delle bombe (rmx)
  18. Anima e ghiaccio (outro)

 

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Them Crooked Vultures

Them Crooked Vultures, 2009

Non sono mai stato convinto dalle superband, quei gruppi formati da vari artisti famosi, che si staccano per un momento dai loro gruppi originari per dar vita a un progetto, che spesso lascia il tempo che trova, ovvero una grande pubblicità, un buon singolo, e un album che si perde nel tempo. Spesso, secondo me, il problema è il numero dei componenti, come la Rockestra messa insieme da Paul McCartney (o meglio, dal suo sosia) che riuniva Bonham, Townshend, Gilmour, Gary Brooker, e tanti altri, tutti di primissimo livello, che messi insieme in 3 minuti di singolo, mi sembrano un po’ schiacciati l’uno dalla grandezza dell’altro. Capita invece a volte che l’assortimento del gruppo sia riuscito, grazie alla volontà di due musicisti di suonare con un gigante del rock, e soprattutto dalla voglia di quest’ultimo di divertirsi ancora.

Them Crooked Vultures (quegli storti avvoltoi?) sono Josh Homme, voce e chitarra dei Queens of the Stone Age, Dave Grohl, dei Foo Fighters, che torna alla batteria dove aveva iniziato con i Nirvana, e Mr. JPJ John Paul Jones, ragazzo del ’46 che ha fatto la storia del rock suonando il basso nei Led fuckin Zeppelin. L’album omonimo si annuncia come una chicca fin dalla grafica, e se ci si aspetta una sola cosa, la soddisfazione è immensa: abbiamo l’hard rock anche nel 2009. E il bello è che non c’è da chiedersi quale dei tre componenti influenzi di più lo stile della band, perché tutti hanno solo voglia di suonare qualcosa di nuovo. Sarebbe stato troppo scontato ricercare le sonorità degli Zep, e di quel rock anni ’70, più difficile invece è fare qualcosa di diverso, di funzionale, e mantenere lo stesso livello per 13 tracce. Si nota infatti come non ci siano canzoni che si distinguono maggiormente dalle altre, non ci sono singoli da radio, canzoni per fare numero, o gemme nascoste: tutti i brani hanno la stessa carica e la stessa capacità di appagare l’ascoltatore.

Forse sì, lo stile più riconoscibile è quello dei Queens of the Stone Age, anche perché Homme è l’autore dei testi, e le parti di chitarra sono più o meno quelle, ma Dave Grohl picchia forte sulla batteria marcando pesantemente i toni, Jones esegue delle linee di basso da maestro, e quando va tutto bene in questo modo c’è anche poco da dire. Le mie preferite sono Elephants, Reptiles, e Warsaw Or The First Breath You Take After You Give Up, ma proprio per citarne tre forzatamente. Si spera in un secondo album, che dovrebbe essere confermato, e intanto da fan affido ai Foo Fighters il compito di salvare il genere.

Capitano Quint

  1. No One Loves Me & Neither Do I
  2. Mind Eraser, No Chaser
  3. New Fang
  4. Dead End Friends
  5. Elephants
  6. Scumbag Blues
  7. Bandoliers
  8. Reptiles
  9. Interlude with Ludes
  10. Warsaw or the First Breath You Take After You Give Up
  11. Caligulove
  12. Gunman
  13. Spinning in Daffodils

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