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Exile On Main Street

Rolling Stones, 1972.

La genesi dell’album è eccezionale, e ha contribuito parecchio a far entrare Exile on Main Street nella cerchia dei lavori migliori degli Stones; inevitabile accennarla un po’. Nel 1971 gli Stones sono ormai delle celebrità, con diversi album sulle spalle, tutti ottimi: Beggars Banquet del ’68 e Let It Bleed solo di un anno più vecchio, sono la punta di una carriera artistica che in meno di dieci anni ha visto questi quattro salire sul tetto del mondo per restarci. Dato che la celebrità e il successo portano sempre dei problemi, il fisco inglese sembra accorgersi di loro, e comincia a tartassare i Rolling Stones, rei di non aver pagato le tasse dovute (dovevano venire in Italia, qui non ci sono problemi con le tasse, l’offerta  è libera). Siccome non sono tipi da scendere a compromessi con il governo, tra il tutto e il niente scelgono il niente (per il fisco), caricano gli strumenti su un camion e  scappano dal Paese. Addio Inghilterra, poco male; ormai sono pieni di soldi e hanno case in tutto il mondo. Scelgono di soggiornare in Francia, a due passi.

Ora basta cercare uno studio di registrazione per il prossimo disco. La ricerca però è difficile e non porta a nulla. Allora a Richards, che forse si era rotto i coglioni di cercare, viene in mente un’ideona: registriamo l’album nella mia casina sulla costa azzurra, un piedaterre per le vacanze: villa immensa, decine di stanze, piscina e ogni stravizio, il paese dei balocchi. Presto la voglia di lasciarsi andare, di vivere alla cazzo, sull’onda bohemien della vita da artista maledetto, prende il sopravvento sull’impegno di registrare i pezzi. I quattro si ritrovano così la casa invasa o da gente improbabile che gira indisturbata per le stanze, o da amici famosi che vengono lì per divertirsi anche loro, attirati dal fiume di eroina di cui Keith diventa un avido consumatore. Anche Jagger e Wyman si scazzano della decadenza dell’ambiente e spesso e volentieri non sono presenti alle sessioni di registrazione che avvengono nella cantina della villa. Ognuno fa un po’ quel cazzo che gli pare; anche i vagabondi che affollano la villa, visto che un giorno qualcuno entra e ruba 7/8 chitarre e altri strumenti. E’ tutto molto confuso, disordinato, in un disfacimento dove non c’è un timoniere, ma solo membri del gruppo che alternativamente scrivono e registrano materiale su materiale, senza un disegno preciso, presi dalla follia di quei giorni fuori dal tempo.

E’ così che nasce Exile on Main Street, uno degli album (doppi) più belli della band, per il sottoscritto l’ultimo album degli Stones, che da quel momento in poi non hanno più prodotto roba all’altezza del loro nome. Potevano smettere dopo quest’album e nessuno avrebbe avuto da ridire, anzi, sarebbe stata la conclusione perfetta di una carriera trascorsa sempre sulle stelle. Invece ne dovevano fare altri 7000 senza senso, scelta che ha inevitabilmente finito coll’irritarmi, quando si persiste nel voler continuare a fare qualcosa di cui si è già raggiunto l’apice, che senso ha?

Per me è l’album migliore inteso proprio come insieme, perché se si vanno a prendere i singoli brani e magari si mettono a confronto con tracce di Sticky Fingers fanno fatica. La forza del disco è proprio l’eclettismo dei suoi elementi; si va da pezzi country (Sweet Virginia o Turd On The Run) ai più tradizionali Rocks Off o Tumbling Dice, dove comunque è sempre presente l’onda della musica del Sud, un po’ di blues, un po’ di soul. Dai ritmi veloci e caldi di Shake Your Lips, alla sguaiatezza di Happy, all’atmosfera più personale e intimistica della ballad Shine A Light, è un album senza direzioni, o meglio con 18 direzioni diverse. Un album che sa di terra bruciata dal sole e di viaggio verso il blues e la musica nera, tutto visto alla maniera degli Stones.

 

Vitellozzo.

  1. Rocks Off
  2. Rip This Joint
  3. Shake Your Hips
  4. Casino Boogie
  5. Tumbling Dice
  6. Sweet Virginia
  7. Torn And Frayed
  8. Sweet Black Angel
  9. Loving Cup
  10. Happy
  11. Turd On The Run
  12. Ventilator Blues
  13. I Just Want To See His Face
  14. Let It Loose
  15. All Down The Line
  16. Stop Breaking Down
  17. Shine a Light
  18. Soul Survivor

 

 

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Led Zeppelin – Dazed And Confused

LedZeppelinLedZeppelinalbumcoverEsistono tre versioni di questa canzone: l’originale, la copia, e la migliore.
Un po’ come dice De Niro in Casinò: “ci sono tre modi di fare le cose, il modo giusto, il modo sbagliato, e il modo in cui le faccio io”, e qui “io” sta per Jimmy Page.

Allora il brano è stato scritto e inciso per la prima volta nel 1967 da Jake Holmes, un brano folk, teso, chitarra e basso, frasi spezzate, ritmo che cala, e risale in un finale strumentale. Fortuna o sfortuna vuole che questo sconosciuto Jake Holmes, accompagni e apra l’anno successivo i concerti degli Yardbirds, che dopo aver perso Eric Clapton e Jeff Beck, avevano scelto come chitarra solista il giovane Jimmy Page. E insomma leggenda vuole che durante uno di questi concerti il gruppo sente la canzone di Holmes, e decide di farne una cover. In questa versione ci sono diverse novità: l’intro realizzato basso e batteria con qualche suono di chitarra, un clima più tendende all’hard rock, e la tecnica di Jimmy pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Grandissimo assolo, ma si può fare ancora meglio. Sciolti gli Yardbirds, nel ’68 c’è una band nuova che sta preparando il suo disco d’esordio. Jimmy è il chitarrista, Robert Plant il cantante, John Paul Jones il bassista, e Bonzo il batterista. Non ho idea di come fu gestita la questione diritti d’autore, ma quello che importa è che i 4 decidono di farne un’altra versione, la versione definitiva, inarrivabile, immensa.

Quando parte quella introduzione di JPJ sono sempre lacrime, poi la voce toccante di Plant e subito una prima esplosione di chitarra. Sei minuti e mezzo di piacere fisico. Tutto per arrivare a quando Jimmy, e Bonzo decidono di spaccare tutto, senza regole, senza limiti, solo picchiare duro. In una famosa versione live Page suona la chitarra con l’archetto di un violino, ti rapisce, poi parte Bonzo, e finisce il mondo. Quanto picchia nel finale non è spiegabile a parole. Ti dà na carica diocristo.

Capitano Quint

 

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Maggot Brain

Funkadelic, 1971

La canzone ha lo stesso nome dell’album del 71 firmato Funkadelic. Loro sono il gruppo più colorato, pazzo, estroso, e geniale del funk americano. Sono più o meno gli stessi componenti dei Parliament, guidati sempre dal leader assoluto George Clinton, una figura mitologica. Ritmo, vestiti colorati, tanto tanto casino, divertimento, erotismo, tutto il meglio della musica funk anni 60/70. L’album è bellissimo, Stupid Stupid è fortissima, così come Hit it and Quick It. Chi ha detto che una funk band non può suonare anche il rock?

Qui però le cose sono diverse. Questa canzone di nove, dieci minuti è qualcosa di più. Ascoltata in silenzio da solo, per quei dieci minuti, ti leva dal mondo. Anzi non va nemmeno ascoltata, va proprio sentita, sentita nello stomaco. Una leggera batteria accompagna la straziante chitarra di uno dei miei miti: Eddie Hazel.

La leggenda vuole che Clinton, sotto LSD, abbia detto ad Hazel: “suona come se tua madre fosse appena morta”. Sono i classici aneddoti del rock, nessuno sa se sia vero. Ma è sicuro che una volta finita la canzone si può dire: ha suonato come se sua madre fosse appena morta. La chitarra di Eddie è lancinante, ti fa stare male, ti entra in corpo come una lama. Per quei dieci minuti ti isola da tutto, non cala mai di tensione, non va mai sopra le righe. Uno dei più grandi assoli di sempre, eseguito da uno dei più grandi chitarristi di sempre. Quando si pensa ad un chitarrista nero chiaramente si pensa subito ad Hendrix, ecco, io qui voglio bestemmiare: a volte, ogni tanto, preferisco Hazel a Hendrix.

Eddie muore nel 1992, a 42 anni. L’album solista del 1977 Games, Dames and Guitar Thangs contiene varie perle e alcune cover come California Dreamin e I Want You dei Beatles, rifatte alla sua maniera. Altri tre album sono usciti postumi. Sapere che al suo funerale è stata suonata Maggot Brain mi ha condizionato ancora di più a pensare a lui ogni volta che la sento. Un grande pezzo, un grande artista.

Capitano Quint

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Storia di un Impiegato

Fabrizio De André, 1973

Gli album in cui le tracce sono strettamente collegate tra loro, che raccontano una storia come fosse divisa in capitoli, sono rari, ma personalmente li trovo molto interessanti, anche se dipendono chiaramente dalla storia in questione, e soprattutto da chi la racconta. E direi che qui si casca bene. Storia di un Impiegato è il quinto album di Fabrizio De André e, per sua stessa ammissione è un album politico, anche se non doveva esserlo. Per questo la critica del tempo ha duramente stroncato il lavoro, e già questo significa che è un grande album.

La storia si apre con un’ introduzione, prima solo musicale, poi viene descritta una scena, come se un uomo qualunque la stesse guardando da lontano: persone che lottano, come per gioco, ma con rabbia, sono dei giovani. Nella seconda traccia (Canzone del Maggio) la situazione si fa più chiara: sono i moti studenteschi del maggio francese del’68. La canzone è ripresa da una canzone francese di quel periodo, e mostra tutta la forza di volontà dei rivoltosi. L’uomo, l’impiegato, ascolta le loro ragioni e ne rimane turbato, qualcosa gli è entrato in testa. Si accorge che sta trascorrendo passivamente la sua vita, ma sa anche che non può unirsi ai giovani nelle piazze, ed inizia quindi a pensare ad un atto più violento (La Bomba in Testa). Arriva il primo sogno, Al Ballo Mascherato, il ritmo è leggero, la musica allegra. L’uomo si ritrova in mezzo a Cristo, Maria, Dante, suo padre e sua madre, e a tutti quei personaggi che nella sua vita hanno rappresentato il potere e l’autorità. Sogna di far esplodere una bomba in mezzo al ballo, e alla fine dover solo contare i morti. Ma giunge anche il Sogno Numero Due; l’uomo è ora imputato, e un giudice lo mette di fronte ad una terribile verità: “il dito più lungo della tua mano è il medio, quello della mia è l’indice, eppure anche tu hai giudicato.” Per eliminare i simboli del potere l’uomo ha dovuto prima giudicarli, e poi condannarli, esercitando quel potere che lui stesso vuole combattere.

Il sogno continua nel brano successivo, La Canzone del Padre: il giudice gli offre di impersonificarsi in suo padre, rivivendo così una vita triste e illusoria. L’uomo si sveglia, quella vita lui non la vuole, e prende coscienza del suo dovere: Vostro Onore, sei un figlio di troia, mi sveglio ancora e mi sveglio sudato,ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo. I ritmi cambiano, sono decisi, la musica incalza le intenzioni dell’uomo che diventa Il Bombarolo, che con tanto amore si dedica al suo tritolo. L’intento è chiaro, ma la riuscita dell’azione non è affatto scontata: C’è chi lo vide ridere davanti al Parlamento, aspettando l’esplosione che provasse il suo talento, c’è chi lo vide piangere un torrente di vocali, vedendo esplodere un chiosco di giornali. Si intuisce come si sia risolta la cosa, l’incontro con il giudice c’è stato davvero, ed è arrivata anche la condanna al carcere.

All’uomo nella sua cella non resta che scrivere una durissima lettera alla sua amata, che sa tanto di lettera d’addio. E’ Quando Verranno A Chiederti Del Nostro Amore, una delle mie preferite di De André, un’amara rilettura di un rapporto ormai finito. Ma l’uomo ha un sussulto di ribellione, in Nella Mia Ora Di Libertà si rifiuta di condividere questo momento con un secondino, e dopo aver descritto le condizioni carcerarie, (usate da De André per ritrarre la società di cui tutti facciamo parte, in cui non può contare l’azione di un singolo, ma bensì la presa di coscienza collettiva), si passa ad una reazione di gruppo, riprendendo così i toni de La Canzone di Maggio iniziale: Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va, e abbiam deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà, venite adesso alla prigione, state a sentire sulla porta la nostra ultima canzone che vi ripete un’altra volta per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

Quanto cazzo manca De André oggi…

Capitano Quint

  1. Introduzione
  2. Canzone del maggio
  3. La bomba in testa
  4. Al ballo mascherato
  5. Sogno numero due
  6. Canzone del padre
  7. Il bombarolo
  8. Verranno a chiederti del nostro amore
  9. Nella mia ora di libertà

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Unknown Pleasures

Joy Division, 1979

I Sex Pistols riuscirono a cambiare la musica in 4 anni. L’ultimo album di inediti è del ’79. Cinque mesi dopo escono i Joy Division che cambieranno la musica in 2 anni, con 2 album. Ai Sex Pistols sono sicuramente legati, ma il loro punk è molto più curato musicalmente, introducendo melodie che daranno il via a tutto quel filone che negli anni 80 prenderà i nomi di post-punk, e new wave, anche grazie ai tre componenti Bernard Sumner, Peter Hook, e Stephen Morris che formeranno i New Order. Il quarto componente è il cantante e leader, Ian Curtis. Decide di impiccarsi a 23 anni, dopo aver sofferto di epilessia e depressione. Due album e qualche inedito sono tutto quello che ci ha lasciato, ma sono di un livello unico, probabilmente anche grazie alla sua figura così misteriosa e tormentata.

Unknown Pleasures è l’album d’esordio, e non c’è niente di meglio che esordire con una copertina rimasta nella storia della musica e della grafica. Linee bianche su sfondo nero riprese da un libro di astronomia. Nessuna scritta. 10 tracce sofferte e oscure. La prima è Disorder, ed è forse quella più leggera, in confronto alle altre così ritmicamente pesanti come New Dawn Fades e I Remeber Nothing. Fondamentali sono soprattutto il basso e la batteria che disegnano un ambiente cupo che a volte esplode con rabbia in brani come Shadowplay (per me la migliore), dove si può sentire una grande parte di chitarra. Tutto però è segnato dalla straziante voce di Curtis, sofferente, malinconica, perfetta. Sentirlo cantare “Ed ero in cerca di un mio amico/E non avevo tempo da perdere/ Già, in cerca di alcuni miei amici” (Interzone) e pensare che si impiccato a 23 anni è veramente angosciante. In queste canzoni e nel successivo album Closer, si avverte tutta la grandezza della sua personalità, così fragile, ma incisiva. Dal lato oscuro dei Joy Division nasceranno direttamente i New Order e le loro sonorità new wave, ma la loro influenza è evidente in tutto il decennio e non solo, in gruppi come i The Cure, i Bauhaus e gli Psychedelic Furs, (e ad onorare il post-punk in Italia i Diaframma).

A tutti i finti gruppetti punk-dark-merda-emo, con occhi truccati e vestiti alla moda, e a tutti quelli che li ascoltano, ritrovando in essi i loro dolori adolescenziali, dedico l’ascolto di questo album, con la consapevolezza, e la personale gioia, che non vi piacerà.

Capitano Quint

  1. Disorder
  2. Day of the Lords
  3. Candidate
  4. Insight
  5. New Dawn Fades
  6. She’s Lost Control
  7. Shadowplay
  8. Wilderness
  9. Interzone
  10. I Remember Nothing

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Paranoid

Black Sabbath, 1970, Vertigo.

Credo sia abbastanza inutile parlarvi dell’album. E’ chiaro che quelli di voi che leggeranno queste righe già li conoscono i Black Sabbath –  altrimenti non ci sareste venuti sulla pagina – così come conoscono Paranoid. Del resto è impossibile non avere ascoltato almeno un pezzo di questo disco, credo di non farla fuori dal vaso se dico che siamo di fronte a una delle pietre miliari dell’hard rock. Si potrebbe anche parlare di heavy-metal, ma qui siamo ancora agli inizi, vero è che l’heavy metal comincia – e per me finisce – con Paranoid. Tutta la musica rock, ogni sua derivazione anche di nicchia, da quella più commerciale a quella più grezza a quella più dura, è stata influenzata dai Sabbath, che a ragione sono considerati insieme ai Deep Purple, gli Zep e gli Stones i padrini del rock. Quindi, dato che tutti sappiamo di cosa stiamo parlando, farò conto di raccontare due stronzate a me stesso, tanto le stranezze sono ammesse: giusto, si parla di Paranoid.

Secondo album del gruppo, dopo l’omonimo sempre del ‘70, che insieme a Master of Reality (1971, questi in un anno hanno cambiato il rock, un anno, quando si dice i’fenomeni) forma un uno-due-tre che stenderebbe tutti. Alla voce c’è Ozzy, che prima di bruciarsi i’capo e perdersi nella carriera solista e nei reality show del cazzo, c’ha regalato delle Signore Tracce e una Signora Voce, carismatica, piena, limpida (no da gatto arrotato come va di moda ora). Se poi uno ci aggiunge gli assoli di Iommi – che è (e sarà sempre) l’anima della band – Paranoid  non può non piacere.

Otto pezzi senza vincoli di lunghezza, alcuni duran tre minuti scarsi, altri otto, tempi che se oggi li presenti a una casa discografica ti ridono dietro per due settimane. Come War Pigs, brano d’apertura, contro la guerra, critica pesante alla classe politica di quegli anni, degli War Pigs appunto (ricordiamoci che siamo negli anni ’70 con la guerra del Vietnam). Con Paranoid credo ci sia poco da dire, 2:52 copiati e copiati e imitati in tutto  il mondo, un motivo ci sarà. Su Planet Caravan da segnalare la chitarra di Iommi, che sembra muoversi da sola in un’altra dimensione, in un altro tempo, insieme alla voce distorta e lontana di Ozzy. Grande pezzo. Voce ovattata che raggiunge l’apice della stranezza con Iron Man, questo mostro di metallo che sembra davvero venuto da un altro pianeta (riff di chitarra da sega).

Se i Sabbath, dopo queste tracce avessero detto “oh vai, ci siamo, è venuto fòri un bè lavorino gente, finiamola qui”, nessuno si sarebbe stupito, bastano questi quattro pezzi per creare un ottimo album. Invece, non si son fermati, e hanno fatto bene a proseguire. In Electric Funeral c’è un leggerissimo richiamo all’immagine del diavolo vendicatore, molto suggestiva, era scontato che qualcosa ci fosse, ma la chiudo qui la questione, non mi va di aprire un dibattito sulle polemiche di chi dice che certi gruppi rock siano satanisti o roba simile, ascolto la musica e mi limito a quello. Ovviamente ho una mia idea, ma me la tengo per me. Da segnalare, infine, anche Fairies Wear Boots, una delle mie preferite, pochi discorsi e molta chitarra. Ecco, appunto, pochi discorsi e mettete su  i Sabbath.

Vitellozzo.

1. War Pigs
2. Paranoid
3. Planet Caravan
4. Iron Man
5. Electric Funeral
6. Hand Of Doom
7. Rat Salad
8. Fairies Wear Boots

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Fragile

Yes, 1971

Progressive rock, rock psichedelico, sinfonico, le definizioni possono essere tante ma fondamentalmente tutte inutili. Sono gli Yes, musica vera.
A due anni dall’esordio, arrivano nel ‘71 già al loro quarto album (perché una volta si produceva tanto, non a scopi commerciali, ma perché i gruppi creavano tanto), e si presentano con un decisivo cambio di formazione: alle tastiere c’è Rick Wakeman, che farà fare il salto di qualità alla band.Il resto del gruppo è formato da Jon Anderson, cantante e autore, Steve Howe alla chitarra, Bill Bruford, batterista, e Chris Squire, tra i migliori bassisti di sempre. Wakeman aggiungerà al gruppo quelle melodie che trasportano l’ascoltatore attraverso tutto il brano, offrendo cambi di ritmo continui e grandi scambi tra tastiera e chitarra. Secondo me lui si gioca il primo posto alle tastiere con Keith Emerson degli ELP, e Jon Lord dei Deep Purple.

La grandezza dell’album si capisce dalla prima traccia, Roundabout, 8minuti e 30 di perfezione. Capita che spesso il basso sia coperto dagli altri strumenti, ma qui Chris Squire lo fa suonare veramente forte, aiutando il ritmo coinvolgente. Un grandissimo pezzo. Secondo brano, Cans And Brahms, assolo di organo di Wakeman che riprende una sinfonia di Brahms. Eh ma proprio il ragazzo non sa suonare.Quando un album è composto bene lo vedi dalle piccole cose: al pezzo We Have Heaven, di cui è facile intuire l’atmosfera, segue South Side Of The Sky che, per sottolineare un cambio di umore, inizia con i suoni di una tempesta, vento, tuoni, e batteria, e prosegue restando su un rock più aggressivo. Altri tre pezzi degni di nota sono The Fish (Shindleria Praematurus) per gli effetti sonori di un altro pianeta, Mood For A Day, arpeggio alla chitarra di Steve Howe elegantissimo, e infine la traccia che chiude l’album: Heart Of The Sunrise, la canzone più complessa, che sfrutta circa undici minuti con una grande carica che solo grandi musicisti possono gestire.

Vorrei sottolineare come l’album sia composto da brani che durano 8, 9, 10 minuti, e altri di 2, 1, o 30 secondi, tempi che oggi sono impensabili per il mercato, della serie cazzo ce ne frega della radio…o forse una volta anche in radio davano la Musica. Con questo album inizia inoltre la collaborazione con il pittore Roger Dean, che per quanto io odi il genere fantasy cosmico, trovo perfetto per le copertine e le atmosfere degli Yes.

Capitano Quint

1.Roundabout 8:30

2.Cans and Brahms 1:38

3.We Have Heaven 1:40

4.South Side of the Sky 8:02

5.Five Per Cent for Nothing 0:35

6.Long Distance Runaround 3:30

7.The Fish (Schindleria Praematurus) 2:39

8.Mood for a Day 3:00

9.Heart of the Sunrise 11:27

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Who’s Next

Who, 1971

Quinto album che insieme al precedente Tommy (1969) ed il successivo Quadrophenia (1973) rappresenta il miglior momento della band inglese.
Tutti pezzi scritti da Townshend, tranne My Wife di Entwistle,  che li riprende da una sua idea di realizzare un’opera rock, e infatti si avverte una teatralità trionfale unita al solito rock degli Who.
Baba O’Riley è la prima traccia, introduzione con il sintetizzatore, poi la tastiera, dopo arriva la batteria di Keith Moon, in un minuto sei già convinto della grandezza del disco.
Bargain e The Song Is Over sono costruite molto bene, partendo piano quasi acustiche ed esplodendo con tanta tanta energia.
Ma sono le ultime due tracce ad essere secondo me le vere perle di questo album. Behind Blue Eyes è meravigliosa nel testo e nella chitarra di Townshend, così dolce e malinconica inizialmente come la voce di Daltrey e poi capace di cambiare completamente il ritmo.
In Won’t Get Fooled Again i quattro si scatenano, si rivede la voglia di rivalsa nei confronti di una società incapace di cambiare (“meet the new boss, same as the old boss”); tanta musica suonata bene da cui emerge lo straripante talento di Entwistle, forse il miglior bassista rock di sempre, e di Keith Moon. Non mi avventuro ancora nel dibattito su chi sia il miglior batterista tra lui, Neil Peart, e John Bonham, ma Moon resta un personaggio incredibile, carismatico, raffigurazione perfetta di genio e sregolatezza.
Copertina modernissima: loro quattro in mezzo al deserto che si riabbottonano dopo una pisciata su un pilastro di cemento (un po’ monolite di Kubrick). Li voglio ricordare così, invece che con la distruzione degli strumenti sul palco che sì li ha resi famosi, ma che ormai è stata abusata e copiata perdendo di significato.

Capitano Quint

  1. Baba O’Riley – 4:59
  2. Bargain – 5:34
  3. Love Ain’t For Keeping – 2:11
  4. My Wife – 3:41
  5. The Song Is Over – 6:16
  6. Getting In Tune – 3:54
  7. Going Mobile – 3:43
  8. Behind Blue Eyes – 3:39
  9. Won’t Get Fooled Again – 8:38

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