Un’erezione, un’erezione, un’erezione, un’erezione triste….per un coito molesto, per un coito modesto, per un coito molesto. Spermi, spermi, spermi, spermi indifferenti…per ingoi indigesti, per ingoi indigesti…
Si può iniziare un “best of” così? Anzi, inizia ancora prima, con una copertina splendida: il contrasto tra la scritta CCCP sul marchio Coca Cola è qualcosa di stupendo.
1994, CCCP Fedeli Alla Linea, che ormai erano già diventati CSI, ma ci regalano questa raccolta dei loro primi album, quelli che dimostrano che il punk esisteva ampiamente anche in Italia.
Raccolta che si divide in due cd, Danza e Militanza, brani editi tra l’85 e i primi anni 90, alcuni completamente fuori di testa, altri molto profondi, tutti da ascoltare. C’è un featuring e una cover con Amanda Lear, c’è Amandoti, che molti idioti continuano a pensare sia una canzone di Gianna Nannini, c’è Valium Tavor Serenase, c’è Huligani Dangereux, c’è Oh Battagliero (che consiglio però nella versione della colonna sonora di Tutti Giù Per Terra, con intro del poeta Carlo Monni: “non sei voluto diventare comunista, e non hai voglia nemmeno di fare soldi. Ma che bestia sei?!”)
Le più belle per me, la straziante Annarella, And The Radio Plays, ripresa anche nel live In Quiete, e Fedele alla Lira! Che oggi è quasi profetica. A Giovanni Lindo Ferretti, e ai CSI va dato il merito inoltre di aver prodotto non solo queste perle, ma anche due gruppi: gli Ustmamò, e soprattutto i Disciplinata che restano un cult assoluto. ENJOY!
Capitano Quint
questa apparizione in Rai vale tutto
Disco 1 – Danza
Mi ami?
Tomorrow (voulez-vous un rendez-vous) – con Amanda Lear
La domanda delle domande per un inglese negli anni ’90: Oasis o Blur? Domandona. Io preferisco(vo) quelli di Manchester, forse perché li conosco meglio; ma la bilancia è molto mobile, i pesi possono spostarsi facilmente da un piatto all’altro. Questo perché alla fine è impossibile fare una scelta tra due gruppi che, sebbene appartengano alla stessa corrente musicale – quell’onda britpop che a metà dei ’90 ha vissuto il suo momento d’oro – hanno tirato fuori due stili musicali totalmente differenti, tematiche comprese. I Blur forse sono sempre stati un po’ più inseriti nel contesto socio-politico del periodo, le loro canzoni non erano mai fini a se stesse; magari la band di Colchester poteva sembrare snob o più da “universitari”, meno accessibili rispetto agli Oasis (per quanto la musica popular possa essere inaccessibile), ma alla fine le etichette non contano un cazzo quando ci si trova davanti a un ottimo album, sicuramente uno dei migliori nel suo genere.
Questo anche grazie a tutto quello che si respira nel Regno Unito, dove le band che nascono non sono mai banali, mai ripetitive, mai omologate; è proprio una concezione della musica intesa come sperimentazione diversa dalla nostra, lì non suonano per sfondare, suonano per suonare. Il britpop è un ceppo che si rigenera continuamente, basta pensare alla nascita dei Coldplay, che hanno preso tutto quello che di buono aveva da offrire la scena musicale britannica di fine anni ’90 per sviluppare a qualcosa di nuovo, o ancora i Radiohead. Comunque, passiamo a Parklife.
La copertina è favolosa: due cagnacci incazzati che corrono all’ippodromo. Di solito le copertine non sono mai un granché (tipo quelle degli Oasis che sanno di poco), invece i Blur (o chi per loro) hanno sempre pensato a fare qualcosa di diverso. Sedici tracce sedici. Come tutti gli album, ci sono giusto quelle due – tre hit da classifica mandate in radio fino alla nausea, Girls & Boys e Parklife, che sì, son decisamente orecchiabili, musicali e ironiche, ma non sono le migliori dell’album, secondo me. Queste due fanno solo da apripista a una serie di tracce, dove si palesa l’eclettismo del gruppo, supportato da un continuo richiamo alle musicalità dei Beatles e un po’ di 80’s, che non fa mai male: in Badhead Damon Albarn canta dolcemente, una voce più rilassata, più tranquilla rispetto a Girls & Boys, in Clover over Dover Coxon si ricorda di essere un chitarrista dalla delicatezza inusuale, come in This Is a Low (una delle mie preferite) dove ci regala un assolo sporco anticonvenzionale. Mi piace tanto anche End Of a Century, canzone quasi scherzosa, una visione disincantata della fine del millennio, in fondo End of the century it’s nothing special. Con Lot 105 sembra di ascoltare i Meganoidi, pezzo molto raprap ska. L’unica ballad del disco è To The End, gran bella canzone, dal gusto quasi retrò. In Far Out c’è spazio anche per il bassista Alex James, che prende il posto di Albarn alla voce, 1:37 di parole ad minchiam, ogni tanto ci vòle anche questo.
Siccome mi tocca, per spirito di appartenenza, parlare anche di qualche album italiano, tanto vale parlare dei Modena, uno dei pochi gruppi nostrani che si salvano dal nulla degli ultimi trent’anni.La copertina dell’album dice tutto: foto in bianco e nero di duemilasettecento persone tutte in posa stile famiglia dell’Ottocento. E’ chiaro che non è un gruppo rock, per due motivi: 1) il rock in Italia – quello vero – non esiste. 2) qui si suona con banjo, armonica, tromba, sassofono, violino, organo, fisarmonica, scottish pipe (cazzo sarà la scottish pipe..) e via discorrendo. Folk music fatta senza impegno, solo con la voglia di divertirsi e far divertire, senza obblighi discografici, senza stress, solo musica sul campo, raccolta, piccoli locali, piccoli concerti, piccoli grandi pezzi. La Grande Famiglia è la seconda fatica dei Modena dopo Riportando Tutto a Casa (1994), già di per sé ottimo album d’esordio (In un giorno di pioggia una delle mie preferite). Sedici tracce cariche di energia, cariche d’Irlanda. L’ispirazione alla musica irlandese è evidente (d’altronde loro sono Amanti d’Irlanda). Non starò qui a elencare ogni singola traccia, se vi piace l’album compratevelo e ascoltatevele da soli (anche perché son sedici, mica due..).
Giusto tre o quattro tanto per gradire, sennò qualcuno potrebbe pensare che mi faccia fatica scrivere. La prima traccia, Clan Banlieue (collaborazione con Paolo Rossi), parla della voglia di evadere da una realtà che ci opprime, per scoprire posti nuovi, viaggiare, cazzeggiare con un furgone arrugginito levandosi di culo dai sobborghi soffocati dalla noia. Bella anche Canzone della fine del mondo, quella che preferisco, la dimensione del sogno, della possibilità di qualcosa di meglio, della disillusione con la realtà dei fatti, e i giorni passavano e il tempo nel sogno volava (…) ma il vento dell’ovest chiamava ed il cielo d’Irlanda spariva, mi svegliai in una stanza deserta, ubriaco, mentre il sogno finiva. Non manca ovviamente una denuncia al sistema dell’Italia-Paese, fatto di ruffiani, arraffini, evasori (tema “vagamente” attuale) con Giro di Vite, come anche richiami alla terra emiliana (La Mondina) e al dialetto modenese (Al Dievel). Trova spazio anche una cover ben riuscita della Locomotiva gucciniana (cover veramente ben riuscita). Bellissima, infine, anche La Strada (dedicata ad Alberto Morselli, voce del primo album), perché gli addii agli amici veri son sempre da strappa mutande. A mio modestissimo parere questo resta il miglior album del gruppo; mi sembra – infatti – che i Modena si siano persi lentamente nei successivi lavori, con canzoni troppo pervase di luoghi comuni e una retorica pesante, che sembra quasi schiacciare il dinamismo e la carica dei primi pezzi.
Tanti gruppi nella storia della musica hanno fatto i’botto e poi si sono eclissati, non riuscendo a ripetere il successo conseguito o stagnandosi con lo stesso stile, sfornando album simili uno dopo l’altro, senza novità, vivendo magari sul successo di uno – due pezzi famosi e nulla più: non è il caso dei Radiohead. Inutile che vi dica che anche questi vengono dall’Inghilterra; non che tutti i gruppi bravi vengano da lì, però c’è da dire che la percentuale di band inglesi che sfondano e stupiscono è parecchio alta. I motivi precisi non li so nemmeno io, sarà l’aria, sarà il clima, sarà che Ok Computer è davvero un bell’album. Dopo il disco d’esordio Pablo Honey e la conferma con My Iron Lung e (soprattutto) The Bends sarebbe stato facile (e in parte scusabile) cadere nella trappola di rifare un disco in parte simile ai suoi predecessori, visto il successo. Dato che Thom Yorke non è uno stupido, ma un artista completo, in quanto tale, con quest’album decide di cambiare tutto: musica, stile, sonorità. Non sbaglia. Alla fine è la cosa migliore, gli artisti veri sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, quelli che si accontentano son bravi sì, ma si fermano lì.
Dodici pezzi carichi di tensione, al centro di tutto c’è l’uomo moderno, con le sue paure, il disagio verso una società che si sta frantumando, con la perdita di valori e con i ritmi forsennati, in un tempo economico che incalza, nel materialismo più gretto, anestetizzando le emozioni, portandoti a chiuderti a guscio nel tuo mondo, raggomitolato (Paranoid Android). A differenza di tanti album, dove spesso (quasi sempre) tra musica e parole, una delle due componenti tende sempre a prevalere sull’altra (non necessariamente prevaricandola, però), in questo caso vanno entrambe di pari passo. Che il termine “cantante” per Yorke sia riduttivo è un dato di fatto: più che di parole possiamo parlare di testi poetici, quasi sperimentali, così come la musica. Infatti, Ok Computer, oltre a discostarsi dai primi due album, si discosta anche da qualsiasi altro genere esistente fino a quel momento: i suoni sono un misto di rock e di elettronica (Airbag), l’uso delle tre chitarre ci sta benissimo in certi pezzi, addirittura la voce diventa artificiale (Fittier Happier) – il richiamo all’estraniamento dell’uomo che non si riconosce più nel mondo da lui stesso creato è evidente, almeno per me. Con Subterrean Homesick Alien mi sembra di ascoltare un brano dei Pink Floyd (ovviamente con le dovute distanze, i maestri un si toccano), però, almeno nelle atmosfere, nella sonorità lontana, un richiamo c’è di sicuro. Exit Music (For a Film) è forse il pezzo più drammatico dell’album, dove la voce di Yorke si rivela capace di una sofferenza tangibile. Su Let Down non dico nulla, solo che è la mia preferita. Nulla da dire nemmeno su Karma Police, che nonostante abbia mantenuto la sua forza emotiva intatta, è stata rovinata negli anni da continui passaggi in radio (addirittura mi pare sia stata usata per una pubblicità del cazzo, roba da denuncia). E mentre con Electioneering, classica e immancabile canzone di denuncia a una classe politica sempre più lontana dai problemi veri della gente, ci avviciniamo alla fine dell’album, due parole su Lucky, ballad bellissima, qui davvero lo posso dire che c’è tanto Pink Floyd, ma non imitato, bensì rivisitato in chiave più moderna: era facilissimo sbagliare il colpo, osare troppo, invece il buon Yorke l’ha sfangata anche a questo giro.
Due parole due anche sul bookset (i’librettino coi testi, però bookset fa più fico):il modo in cui è stato concepito ti fa capire la cura dei dettagli anche nelle cose secondarie e dato che io alle cose secondarie e inutili ci tengo particolarmente, non posso non restare soddisfatto di questo disco.
Terzo album di Ashcroft e compagni, dopo A Storm in Heaven e A Northern Soul, molto apprezzati dalla critica, un po’ meno dal pubblico (vendite non altisonanti). Album che vede la luce dopo un periodo piuttosto travagliato del gruppo, reduce da un primo scioglimento a causa dello stesso Ashcroft nell’estate del ’96, nonostante la band avesse riportato un discreto successo, entrando nella Top Ten inglese proprio con “A Northern Soul”.
Formazione ufficiale e ufficiosa: Nick McCabe e Simon Tong alle chitarre, Simon Jones al basso, Peter Salisbury alla batteria e, ovviamente, alla voce, l’idolo delle masse Richard Ashcroft, o perlomeno la massa che ne resta dopo essersi stroncato come un cinghiale (c’è un perché di quelle occhiaie nere alla Novello Novelli). Comunque, il buon Richard con Urban Hymns ha sicuramente fatto centro. Smussata di molto la componente psichedelica, elemento portante del primo album, tante distorsioni e gnignigni elettronici, con Urban Hymns i The Verve sembrano volersi rivolgere a un pubblico più eterogeneo, con una musica di ampio respiro.
Botto Clamoroso. Album osannato dalla critica e un successo planetario (va forte anche in America), grazie a pezzi come Bitter Sweet Simphony, inno generazionale (come il video omonimo), ma anche Sonnet e la ballad The Drugs Don’t Work. Ma andiamo per ordine. Bitter Sweet Symphony, canzone stupenda, la scelta di usare archi e violini si rivela vincente (come in molti altri pezzi, Lucky Man tanto per dirne uno..), temi sempre attuali e controversi – You’re a slave to money then you die – Well I never pray/ But tonight I’m on my knees yeah/ I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah.
Dicevamo delle ballate; in Urban Hymns abbondano: Sonnet e Lucky Man possono essere prese come esempio della nuova armonia ritrovata dal gruppo, dove tutti gli strumenti si accordano, non si danno fastidio, si compenetrano piano piano, si vogliono bene, Happiness /Something in my own place/ I’m standing naked/ Smiling, I feel no disgrace / With who I am, vige l’ordine col disordine dell’assenza di barriere, non sono canzoni che finiscono (Space And Time e One Day), vanno ascoltate con calma, tranquilli, senza patemi, qui non si poga, non ci si foga. The Drugs Don’t Work, canzone “poco” autobiografica, contro le droghe: And I hope you’re thinking of me/ As you lay down on your side/ Now the drugs don’t work/ They just make you worse. Belle eh, le ballate, però le origini non si scordano mai e i The Verve non sono da meno. Loro lo sanno che sotto sotto sono ancora un po’ indie-rock-schizzati ed ecco che tirano fuori altri conigli dal cilindro con The Rolling People, Catching the Butterfly e Neon Wilderness, brani leggermente più aggressivi e di richiamo dei primi due album, più chitarra/ meno sviolinate (era l’ora), concetto ribadito in Come On e Velvet Morning (una delle più belle della band). Nota a parte merita This Time che, pellamordiddio carina eh, però la trovo un po’ fuori posto. Boh.
Resta solo una cosa in sospeso, il mio rammarico per il loro scioglimento: peccato.
E’ inutile che fai il ganzo con il rock indipendente, con la musica elettronica, con il rap della strada, o con qualsiasi altro genere che ti consente di non svelare con chi hai iniziato. Se hai vissuto gli anni 90, anche solo la fine, ti tocca ammettere di essere passato dagli 883. E quando il tuo lettore musicale te li ripropone e resisti all’impulso di cambiare subito canzone, ti accorgi di sapere i testi a memoria. Nel 1992 erano usciti con Hanno Ucciso l’Uomo Ragno: quando si dice fare il botto (la canzone Con un Deca resta secondo me una delle migliori del gruppo).
L’anno successivo esce Nord Sud Ovest Est, il successo è, se possibile, superiore grazie alla stessa formula: testi semplici, composti da parole comuni, argomenti quotidiani trattati con un po’ di malessere e amarezza verso un mondo che si sta perdendo. Le musiche superanni 90 tra pop, dance, e un po’ di hip hop.
Prima traccia: Il Pappagallo, critica alle persone opportuniste, che fingono di sapere tutto alla ricerca di popolarità. Poi arriva Sei Un Mito, primo singolo estratto, un pezzo clamoroso, una colonna sonora degli anni 90. Non Ci Spezziamo è un rap per tutti i ragazzi stanchi della scuola e dei falsi amici, Weekend affronta la monotonia delle giornate, in Cumuli si parla della droga (attualissima), Ma Perché parlando dei pregiudizi e del giudicare senza sapere, dà un grande consiglio: tu cerchi difetti a noi ma sarebbe meglio/se ti fermassi un po’ a guardare i tuoi/Ma perché non ti fai mai i cazzi tuoi. Ci sono poi gli altri singoli famosissimi: Nella Notte è forse la più semplice, orecchiabile, senza pretese, Come Mai “inutile parlarne sai” non c’è bisogno di scrivere nulla. E poi ci sono le due tracce che secondo me rappresentano al meglio la musica degli 883, Rotta x Casa Di Dio e Nord Sud Ovest Est. In questi brani si parla del viaggio senza meta o di una meta che non verrà raggiunta, ma non ce ne frega nulla, lei non c’è più, vabbè siamo tra amici, “senza fidanzate troie né mogli quattro deficienti a fare cazzate”, e tra una cazzata e l’altra Cisco farà sempre tardi e dirà “No!Stiamo andando a fanculo!”.
Mauro Repetto lascerà il gruppo dopo questo album, lasciando a Max Pezzali tanti altri successi firmati sempre 883, che consacreranno il gruppo come uno dei migliori in Italia (pensa te come siamo messi). Il pop italiano di ora fa pena, sei bella come il sole sei mia sono tuo è il massimo della profondità dei testi, non so se bisogna rimpiangere gli 883, ma quando parte la base di Sei Un Mito sono sempre gioie.
Capitano Quint
1. Il pappagallo
2. Sei un mito
3. Non ci spezziamo
4. Come mai
5. Rotta x casa di Dio
6. Nord sud ovest est
7. Ma perché
8. Weekend
9. Cumuli
10. Nella notte
Giù il cappello ragazzi. Siamo di fronte a uno degli album migliori degli ultimi vent’anni. Respiro profondo, prendetevi cinque minuti per attutire il colpo (lo so non è facile) e poi, se vi va, continuate a leggere. C’è chi li ha definiti rock, chi alternative, chi brit pop. C’è chi non li sopporta, c’è chi li ama, c’è chi non li conosce, c’è che gli Oasis hanno cantato una generazione. Assioma incontestabile e assoluto.
Se la gente pensava che gli Oasis si sarebbero accontentati per il successo del loro album d’esordio Definitely Maybe (1995) – disco subito al primo posto e maggior numero di copie vendute in un giorno – dovevano ancora imparare a conoscere i fratelli terribili Liam (voce) e Noel (chitarra) Gallagher, vera anima del gruppo (gli altri membri fanno solo da corollario – Paul Arthurs, chitarra, Paul McGuigan, basso, Alan White, batteria). Arroganti fino alla nausea, presuntuosi, rissosi, scontrosi, distruttivi con gli altri e con se stessi, il duo di Manchester punta in alto, Rock’N’Roll Star baby, profetico. 1995. La consacrazione. In mezzo a mille polemiche (il periodo della “Guerra delle Band” con i Blur), esce (What’s the story) Morning glory. Chi aveva dei dubbi sul talento del gruppo? L’uscita è da quella parte prego.
Con quest’album gli Oasis raggiungono l’apice creativo della loro musica, tutti i progetti che verranno dopo saranno solo rimasugli sudici, fetticci, arti tranciati dello stesso Morning glory. Grosso merito del successo dell’album, così come del primo, va dato a Noel (Liam, ti voglio bene lo sai, ma questa è un’altra storia), paroliere della band senza il quale gli Oasis si chiamerebbero ancora Rain, e suonerebbero in localini miseri e merdosi di Manchester.
Passiamo all’album. Si comincia con Hello, molto rock, eccoci, siamo gli Oasis, suoniamo come ci pare, accordi semplici, testi ancora di più, parole strascicate, strofe ripetitive, narcotizzanti e ipnotiche. Calma ragazzi, questo non è un album serio, prendiamocela comoda, cosi come nella vita You gotta roll with it /You gotta take your time/ You gotta say what you say /Don’t let anybody get in your way (Roll with it). Eh si, però c’è l’amore, quello magari un pensierino più serio ci si può anche fare sopra no? Via su, va bene, vorrà dire che nell’album ci si mette Wonderwall tanto per gradire (4:18 di grande musica, da molti considerata la canzone migliore della band). Io, però, preferisco quella che vien dopo, tale Don’t look back in anger , tanto Beatles in questa canzone, più che nelle altre secondo me, dove comunque sono sempre presenti, anche troppo. Don’t look back in anger allora, un po’ meno Beatles e l’album era perfect. Vabbè.
Hey Now! e Some might say, rime incatenate, (mani) incrociate dietro la schiena mentre le si cantano, e andare. Belle cariche queste. Ecco, appunto, fermiamoci un secondo e riprendiamo fiato. Atmosfere tranquille e sognanti con Cast No Shadow (dedicata a Richard Ashcroft), roba seria, pensieri profondi Here’s a thought for every man who tries to understand what is in his hands . He walks along the open road of Love & Life, surviving if he can (pezzo discreto, ma troppo troppo ripetitivo, in questo caso stanca) . Il disco (She) is Electric, ma lo diventa davvero con la “drogata” Morning Glory (il testo più corto insieme a Cast No Shadow), casino incredibile, si fa fatica a distinguere gli strumenti, un suono uniforme che lascia poco spazio per sentire, che non si fa sentire, che devo risentire.
Siamo alla fine. Festeggiamo quest’album con uno sciampagnino magari, giusto il tempo di Champagne Supernova, ballata molto bella, un po’ troppo urlata verso la fine, ma anche questo è un marchio di fabbrica Gallagher.
Sogni di Rock & Roll con (What’s the story) Morning Glory, chi non vorrebbe ritrovarsi intrappolato sotto una frana in una supernova di champagne nello spazio? Io si cazzo.
Due parole due sullo scioglimento: normale e doveroso. Quando un gruppo ha dato tutto quello che poteva dare, come in questo caso, è inutile continuare con robetta da serie B (Liam a quanto pare non l’ha capito con i Beady Eye). Meglio cambiare aria e provare a fare qualcosa di nuovo, almeno fino a quando gli Oasis non si renderanno conto che non è possibile fare l’impossibile.