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Ok Computer

Radiohead, 1997, Capitol.

Tanti gruppi nella storia della musica hanno fatto i’botto e poi si sono eclissati, non riuscendo a ripetere il successo conseguito o stagnandosi con lo stesso stile, sfornando album simili uno dopo l’altro, senza novità, vivendo magari sul successo di uno – due pezzi famosi e nulla più: non è il caso dei Radiohead. Inutile che vi dica che anche questi vengono dall’Inghilterra; non che tutti i gruppi bravi vengano da lì, però c’è da dire che la percentuale di band inglesi che sfondano e stupiscono è parecchio alta. I motivi precisi non li so nemmeno io, sarà l’aria, sarà il clima, sarà che Ok Computer è davvero un bell’album. Dopo il disco d’esordio Pablo Honey e la conferma con My Iron Lung e (soprattutto) The Bends sarebbe stato facile (e in parte scusabile) cadere nella trappola di rifare un disco in parte simile ai suoi predecessori, visto il successo. Dato che Thom Yorke non è uno stupido, ma un artista completo, in quanto tale, con quest’album decide di cambiare tutto: musica, stile, sonorità. Non sbaglia. Alla fine è la cosa migliore, gli artisti veri sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, quelli che si accontentano son bravi sì, ma si fermano lì.

Dodici pezzi carichi di tensione, al centro di tutto c’è l’uomo moderno, con le sue paure, il disagio verso una società che si sta frantumando, con la perdita di valori e con i ritmi forsennati, in un tempo economico che incalza, nel materialismo più gretto, anestetizzando le emozioni, portandoti a chiuderti a guscio nel tuo mondo, raggomitolato (Paranoid Android). A differenza di tanti album, dove spesso (quasi sempre) tra musica e parole, una delle due componenti tende sempre a prevalere sull’altra (non necessariamente prevaricandola, però), in questo caso vanno entrambe di pari passo. Che il termine “cantante” per Yorke sia riduttivo è un dato di fatto: più che di parole possiamo parlare di testi poetici, quasi sperimentali, così come la musica. Infatti, Ok Computer, oltre a discostarsi dai primi due album, si discosta anche da qualsiasi altro genere esistente fino a quel momento: i suoni sono un misto di rock e di elettronica (Airbag), l’uso delle tre chitarre ci sta benissimo in certi pezzi, addirittura la voce diventa artificiale (Fittier Happier) – il richiamo all’estraniamento dell’uomo che non si riconosce più nel mondo da lui stesso creato è evidente, almeno per me. Con Subterrean Homesick Alien mi sembra di ascoltare un brano dei Pink Floyd (ovviamente con le dovute distanze, i maestri un si toccano), però, almeno nelle atmosfere, nella sonorità lontana, un richiamo c’è di sicuro. Exit Music (For a Film) è forse il pezzo più drammatico dell’album, dove la voce di Yorke si rivela capace di una sofferenza tangibile. Su Let Down non dico nulla, solo che è la mia preferita. Nulla da dire nemmeno su Karma Police, che nonostante abbia mantenuto la sua forza emotiva intatta, è stata rovinata negli anni da continui passaggi in radio (addirittura mi pare sia stata usata per una pubblicità del cazzo, roba da denuncia).  E mentre con Electioneering, classica e immancabile canzone di denuncia a una classe politica sempre più lontana dai problemi veri della gente, ci avviciniamo alla fine dell’album, due parole su Lucky, ballad bellissima, qui davvero lo posso dire che c’è tanto Pink Floyd, ma non imitato, bensì rivisitato in chiave più moderna: era facilissimo sbagliare il colpo, osare troppo, invece il buon Yorke l’ha sfangata anche a questo giro.

Due parole due anche sul bookset (i’librettino coi testi, però bookset fa più fico):il modo in cui è stato concepito ti fa capire la cura dei dettagli anche nelle cose secondarie e dato che io alle cose secondarie e inutili ci tengo particolarmente, non posso non restare soddisfatto di questo disco.

  Vitellozzo.

1. Airbag
2. Paranoid Android
3. Subterranean Homesick Alien
4. Exit Music (For A Film)
5. Let Down
6. Karma Police
7. Fitter Happier
8. Electioneering
9. Climbing Up The Walls
10. No Surprises
11. Lucky
12. The Tourist

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